Aspetti della schiavitù a Roma

Theodor Mommsen si sofferma, in questo passo di Storia di Roma Antica, sui caratteri brutali dell’economia della schiavitù nella Roma del II secolo a.C..

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Non si tratta qui dell’antica, in certo modo innocente schiavitù rurale, dove il contadino insieme col suo servo guida l’aratro, o, se il terreno che possiede eccede la sua capacità lavorativa, ne abbandona una parte al servo come fattore o come affittuario che è obbligato a rimettere al padrone una parte le prodotto. Veramente simili consuetudini esistettero in tutti i tempo – nei dintori di Como, per esempio, esse vigevano ancora ai tempi degli imperatori – ma come eccezioni di province privilegiate e di tenute benigamente amministrate. Si tratta qui dell’economia su vasta scala fondata sugli schiavi, che nello Stato romano si sviluppava in conseguenza della preponderanza del capitale, come una volta nello Stato cartaginese.

Mentre a mantenere il necessario numero di schiavi negli antichi tempi bastavano quelli fatti in guerra e gli schiavi ereditati, questa forma invece di schiavitù si fondava, precisamente come l’americana, sulla caccia sistematica all’uomo, poichè non avendosi, nel mettere a profitto le loro forze, cura di sorta della loro vita e della loro propagazione, essi andavano continuamente diminuendo, e più non bastavano a riempirne le fila diradate le nuove masse che le guerre procuravano e di cui era sempre provveduto il mercato.

Nessun paese ricco di tal caccia era risparmiato, nè in Italia era cosa inaudita che un povero nato libero fosse messo fra gli schiavi del padrone che gli forniva il pane. Il paese della tratta di quel tempo era l’Asia anteriore, dove corsari cretesi e cilici, ch’erano i veri cacciatori e commercianti di schiavi, depredavano le coste della Siria e le isole geche, dove a gara con essi gli appaltatori romani dei dazi ordinavano negli Stati clienti simili caccie di uomini e frammischiavano i prigioni ai loro schiavi. Ciò accadeva sì grandi proporzioni che verso l’anno 650 (=140) il re di Bitinia dichiarò di non poter fornire il contingente che gli era stato richiesto, perchè gli appaltatori dei dazi avevano esportato dal suo regno quanta gente vi era atta al lavoro.

Sul gran mercato degli schiavi a Delo, dove i commercianti di schiavi dell’Asia Minore vendevano la loro merce agli speculatori italici, si dice che 10.000 schiavi sbarcati la mattina fossero venduti prima di sera; questo prova nello stesso tempo l’immensa incetta di schiavi e il fatto che ciononostante la domanda superava l’offerta. Nè questo deve fare meraviglia. Già nella descrizione dell’economia romana del seso secolo abbiamo dimostrato che la medesima, come in generale tutta l’economia in grande dei tempi antichi, riposava sull’industria degli schiavi. Ovunque si volgesse la speculazione, suo strumento era pur sempre l’uomo ridotto legalmente a bestia. Da schiavi per la massima parte erano esercitati i mestieri, in modo che il profitto toccasse al padrone. Dai loro schiavi le società appaltatrici delle gabelle facevano regolarmente riscuotere i dazi minori. Schiavi lavoravano nelle miniere, nelle pegoliere e simili; e ben presto si usò mandare greggi di schiavi in Ispagna nelle miniere, i direttori delle quali li accoglievano volentieri e li pagavano profumatamente.

La raccolta delle uve e delle ulive in Italia non si faceva dalla gente del fondo, ma si appaltava a un dato prezzo a qualche detentore di schiavi. A schiavi era generalmente affidata la custodia del grege; ed abbiamo già fatto cenno degli schiavi-pastori erranti, e non di rado a cavallo, nei grandi pascoli in Italia, e lo stesso modo di esercitare la pastorizia divenne ben presto anche nelle province un investimento gradito alla speculazione; per esempio, non appena la Dalmazia fu conquistata (599=155), i capitalisti romani tosto cominciarono a esercitarvi alla maniera italica su vasta scala l’allevamento del bestiame.

Sotto ogni rapporto di gran lunga peggiore era il sistema delle piantagioni, quello cioè di far lavorare i campi da una greggia di schiavi non di rado bollati col ferro rovente, che di giorno con i ceppi ai piedi, sotto il comando dei sorveglianti, eseguivano i lavori di campagna e di notte erano chiusi tutti insieme in una specie di carceri (ergastula), sovente scavati sotto terra. Questo modo di coltivazione, pervenuto a Cartagine dall’Oriente, sembra sia stato introdotto dai Cartaginesi in Sicilia, dove, verosimilmente per questo motivo, il sistema delle piantagioni si presenta perfezionato prima e più compiutamente che in qualcunque altro paese del dominio romano.

Noi troviamo il territorio leontino di 30.000 iugeri di terreno coltivabile, che come proprietà pubblica era stato dato dai censori in appalto, alcuni decenni dopo l’epoca dei Gracchi diviso tra non più di ottantaquattro fittavoli, essendo così toccati 360 iugeri a ciascheduno e fra quelli un solo leontino, gli altri tutti stranieri, per lo più speculatori romani. Da ciò si vede con quale zelo gli speculatori romani seguissero colà le orme dei loro predecessori, e quali grandiosi affari col bestiame e coi cereali siciliani, prodotti dalla coltivazione degli schiavi, avranno fatto gli speculatori romani e non romani, i quali inondavano quella bellissima isola colle loro gregge e colle loro piantagioni.

L’Italia tuttavia andò per ora generalmente esente da questa pessima forma di economia esercitata dagli schiavi. Sebbene nell’Etruria, over pare che un tal sistema di priantagioni sia stato introdotto prima che in ogni altro paese d’Italia e dove per lo meno quarant’anni dopo aveva raggiunto la massima estensione, molto probabilmente non si difettasse fino allora di ergastoli per i lavoratori, pure, l’economia rurale italiana di questo tempo era per la massima parte  esercitata da gente libera, o per lo meno da servi senza ceppi; oltre di che i lavori più gravi si solevano appaltare. La differenza che passa tra il sistema degli schiavi italici e dei siciliani la dimostra il fatto che solo gli schiavi del comune mamertino, i quali vivevano seguendo il costume italico, non presero parte alla sollevazione degli schiavi (619-622 = 135-132).

Gli infiniti guai e le gravi miseri che in questo miserrimo fra i i proletari ci stanno dinanzi, può solo comprenderli chi ardisce di penetrare con lo sguardo in un simile abisso…

 

 

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