Le cinque giornate di Milano raccontate da Francesco Zappert
L’articolo che segue è tratto dall’Omnibus pittoresco del 19 giugno 1848. In esso Francesco Zappert, patriota e futuro garibaldino, descrive le note “Cinque giornate di Milano” del marzo di quell’anno.
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Le giornate del 18 al 22 marzo 1848, registrate a caratteri di fuoco nelle storie de Lombardi meravigliate di trovarsele accanto in mezzo a tanta folla di memorie scipite o crudeli, faranno lo stupore dei contemporanei, che credevano annichiliti dal lungo e duro giogo quei forti, e la gloria dei loro figli, a cui tolga Iddio sia data occasione d’imitarli!
E senza fallo nostro pensiero di accennare distesamente e descrivere in questo articolo i fatti sublimi che illustrarono i cinque giorni del marzo, ma non si son potuti raccogliere gli sparsi avvenimenti così, da formare una storia precisa di quella lotta gloriosa. In seguito, allorchè potrassi scernere agevolmente il vero in mezzo al caos della insperata rigenerazione milanese, esporremo ad uno ad uno i generosi slanci d’amor patrio che d’ora innanzi faranno splendere tra i più onorati il nome lombardo!
Non parliamo della condizione del Lombardo-Veneto sotto il caduto governo: rinnoveremmo tristi memorie, e d’altronde ella dev’esser troppo conosciuta se tutta la popolazione in massa levossi con mirabile sforzo a mutarla. Solo è duopo dire a piena giustificazione della condotta, di essa che prima di venire alle vie di fatto s’eran tentati tutti i mezzi a far comprendere una volta a chi la reggeva che volea esser governata da uomini liberi, che desiderava camminare coi tempi, aver ragione di quanto l’era comandato, risorgere in una parola a quella dignità sociale che non vuol andar sempre ad occhi chiusi nel la via segnata da un intisichito regime. L’Austria tirò innanzi senza abbadare al bisogno universale che faceasi ormai prepotente, e pensò solo al riparo quando l’Italia, la Francia, e da ultimo la Confederazione Germanica proclamarono con tanta energia la santità dei loro diritti. Ma fu troppo tardi. Le concessioni di soverchio attese e che banno l’aspetto d’esser date per forza, non sono mai quelle che fan contento un popolo. Di più, un avvenimento di sangue che aveva bruttate le vie di Milano nei primi giorni di quest’anno, era venuto a collocare nel cuore dei milanesi l’odio accanto ad un sentimento che era solo dispetto politico. Correva generale opinione che bisognava uno scoppio alle passioni che fermentavano in silenzio nei cuori lombardi: e s’avea ben ragione di predirlo: allora appunto che il governo, pressato da una rivoluzione a Vienna e dalle nostre dimostrazioni, concedeva que miglioramenti a quali sospiravasi da tanto tempo eome a una necessità della vita, allora appunto lo scoppio ebbe luogo. – E fu sì grande e sublime che noi domandiamo ancor meravigliati a noi stessi, come abbia potuto sortirsi buona fine senza aiuto alcuno di fuori, ove non sia quello della Provvidenza. Al mezzodì del 18 marzo, si riversò sul bel corso di Porta Orientale una immensa folla di cittadini, determinati a chiedere altamente al governo, coll’appoggio del loro Corpo Municipale, le agognate migliorie. Il lungo rifiuto che s’era già da tempo durato, e le leggi di 7 sangue che erano state l’unica risposta alle lamentanze cittadine, avevano sparso il dubbio che sarebbesi trovata ancora opposizione: e la moltitudine accorse al palazzo del Governo come aspettando che il suo Podestà Gabrio Casati le portasse una buona risposta. Più d’un grido si levò allora, e qualche arma balenò inoffensiva nell’aria nel frattempo: le sentinelle male intrepretando quel primo movimento, fecero atto di minaccia e spararono: il popolo non si contenne, e la rivoluzione ebbe principio. Il vicepresidente O’Donell, in assenza del governatore, primo de magistrati milanesi, fu fatto prigioniero o piuttosto o. staggio. Due o tre dei granatieri di guardia al palazzo rimasero uccisi, e le loro armi vennero in mano del popolo; furon quelli i primi fucili che conquistarono la libertà lombarda.
Istituito immantinenti in mancanza del caduto un governo provvisorio composto d’uomini probi e assennati, Milano, prudente, ben diretta dai nuovi reggitori, determinata a prevenire con ogni sua forza le conseguenze di quel primo atto, pensò seriamente alla propria difesa. In un momento, come per incanto, s’innalzarono in mezzo alle vie forti barricate, le porte e le botteghe si chiusero, ognuno corse alle proprie case ad approvvigionarsi di armi, tutte le famiglie che ne possedevano le largirono generosamente ai primi che si presentarono, e sui tetti e dalle finestre mille e mille difensori s’apprestarono a far pagare gara al nemico l’invasione della bella Milano. Ma armi da fuoco non possedevansi, le soldatesche nemiche occupavano i centri, e i dicasteri della città e del castello, e s’avviavano già verso i bastioni ben trenta bocche di cannone. Or se il popolo non si disaminò in quell’orribil frangente, bisogna ben dire che lo animasse un coraggio soprannaturale, una risoluzione irremovibile di toccar la sua meta o perire sciacciato sotto la inesorabile vendetta del vincitore!
Se non che la fiducia in che viveva Radetzky, che i poveri Milanesi al primo colpo di cannone si sarebbero rifugiati sotto le coltri e avrebbero aspettato in pace ch’ egli spazzasse la città dai rivoltosi, fu la loro fortuna. Il vecchio generale non avea ancora imparato a conoscerli: e però le sue mosse, come quelle di uomo sicuro del fatto Suo, furono tarde, le disposizioni stupide o confuse la notte fatta dello stesso giorno 18, i Milanesi senz’armi e disciplina avean già tracciato il loro piano di battaglia, e le truppe ordinate e le artiglierie del consumato guerriero si aggiravano ancora incerte ai capi della città senza assalire un sì debol nemico. Finalmente il fuoco incominciò in vari luoghi: si lasciarono imprudentemente salire sul Duomo alcuni bersaglieri, e da là, da Porta Orientale, dalla Polizia, dalla Piazza dei Mercanti, mille moschetti vomitarono fuoco continuo sulla quasi inerme popolazione, che non ebbe paura: con poco più d’un centinaio di fucili in tutta la città, con tronchi di spade, ferri irruginiti, poche pistole, sassi e tegole fece le sue prime conquiste. Il lunedì verso sera, i cacciatori che dal duomo colle loro spingarde tenevano in soggezione tutta la Corsia de’ Servi e le vicine stradette, furono obbligati ad arrendersi per fame: il palazzo di corte venne allora in mano del cittadini che lo poterono assaltare da presso, e Poche ore dappoi la polizia, presso la quale da due giorni si battagliava, era sgombra anch’essa della soldatesca nemica: ne uscirono tutti i detenuti politici che l’ombroso spionaggio del caduto governo aveavi rinchiusi per colpe che la rivoluzione di marzo pienamente giustificava. Per la presa di questo dicastero, e per quella del palazzo Marino ch’ebbe luogo quasi nello stesso tempo, si ebbero molte armi a distribuire alla popolazione che le chiedeva con ansietà ed entusiasmo indescrivibili: sicchè allora si aquistò maggior coraggio, e si corse ad assalire posti di più importanza, quali sarebbero la Piazza de Mercanti, ed alcuna delle Porte della città chiuse fin dalle ore quattro del sabato (18). La mattina del martedì (21) alla Porta Ticinese e a Porta Nuova era il maggior fuoco , e gli abitanti spiegarono in ambedue i luoghi eroico coraggio; alla sera, dopo una sanguinosissima lotta erano padroni del Genio, e durante la notte, mentre alla Porta Tosa e a Porta Romana rimbombava continuamente il cannone, si impadronivano del Comando Militare o facevano molti prigionieri, e dopo aver in tal modo ridotto il nemico a restringersi sui bastioni e nelle principali caserme, riunivano di nuovo le loro forze ancor fresche dopo sì enorme e sconosciuta fatica, per poter aprire una porta , e lasciare che volasse a loro soccorso l immensa moltitudine del contado, chiamata intorno alla città dal continuo rimbombo del cannone e dallo scampanio delle chiese. E gli sforzi dei Milanesi furono finalmente coronati; dopo un combattimento accanito alla Porta Tosa (dove si mise in opera per andar contro al continuo trar del cannone l’ingegnoso genere di barricata portato dal nostro disegno), alla Porta Romana alla Porta Vercellina, ed alla Porta Comasina, l’irrompere dei contadini della Brianza, ed il continuo fuoco del cittadini fece aprire l’ultima porta: allora l’esercito austriaco che, avendo perduta molta gente, a poco a poco abbandonava tutte le caserme, battè in ritirata, e nella notte del mercoledì lasciò libera la città, dirigendosi fuor Porta Renza, a quel che parve, verso le linee del Mincio e dell’Adige.
Così, dopo cinque giorni di eroica lotta, in mezzo alla continua speranza di un aiuto del Piemontesi, tra lo spavento delle crudeli barbarie operate dal nemico, si pervenne a mettere in piena dissoluzione un esercito di ben dodicimila uomini, fornito di tanta munizione da seppellir la città sotto un mare di palle, e di sei batterie d’artiglieria che sono trentasei pezzi di cannone, senza contare quelli che gli furon tolti al Palazzo di Corte ed alla Piazza de Mercanti.
Se non che la ritirata non dovea esser tanto facile al nemico quanto poteva credersi: la moltitudine del contado che nel corso dei cinque giorni durava il supplizio di Tartalo per non potere recar soccorso, lungi dallo starsene inoperosa avea barricate le strade, come nella città e preparavasi a far scontare al nemico fuggente il male che aveva fatto nella lunga e terribile lotta.
Abbiamo fatto in breve la storia di questo glorioso avvenimento contemporaneo: ma che diremo dell’incredibile unanimità di pensiero e d’azione, della moralità, dell’ordine, dello spirito d’evangelica mansuetudine spiegato fin dalla classe meno educata di quel popolo, in una lotta nella quale potevano scusarsi le violenze e gli eccessi pel lungo desiderio di vendetta e di rappresaglia? Nei famosi cinque giorni del marzo e dopo ancora, 170000 milanesi coperarono come fossero una persona sola: vigilanza continua, instancabilità ferrea, coraggio, intrepidezza, onestà, amore, carità, uguaglianza perfetta fra tutti ceti: come non dovevano uscir vincitori foss’anche stato il nemico loro doppio di numero?
Per la prima volta forse si vede una città si popolosa custodirsi da sola senza gendarmi, senza poliziotti, senza guarnigione di sorta. E si custodisce pur bene!
Nel corso di poche ore si è avuto una storia si vasta a registrare negli annali milanesi che ogni povera mente, o almeno la mia, avvezza al monotono andamento delle cose regolari, non può capirne tutta la importante grandezza.
Nei giorni seguenti allorchè erano sbanditi i timori di nuovi assalti si sarebbe giurato che era passato un anno dal grande avvenimento della lombarda rigenerazione; e non avvenne ad un solo ma a molti altri di imbattersi in quel giorno in qualche amico non veduto dall’antecedente sabato, e trovarsi spinto da sovrumana forza a buttarsegli al collo e piangere e baciarlo, come avviene appunto quando non s’ha visto da più d’un anno una persona cara al cuore e che si trova aver a dirle tante e affettuose cose. Così Iddio volesse che tal sentimento rassodasse in loro più vivi e stretti i vincoli della fratellanza ad una con quelli della libertà!