Le cinque giornate di Milano
Gino Visconti Venosta ricostruisce, in questo passo, alcuni momenti delle Cinque Giornate di Milano. Era troppo giovane per parteciparvi attivamente, come invece fece il fratello Emilio, tuttavia ricordò quelle sensazioni e quelle vicende, anche perchè, con la sua famiglia, dovette abbandonare la propria abitazione che occupata dagli Austriaci, e poi abbandonare Milano per trasferirsi a Bellinzona, in Sviezzera.
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C’era nell’aria il presentimento della vittoria e si pareva tutti mezzo matti per l’esaltazione e per la gioia: non si vedevano che facce stravolte per la fatica, per l’insonnia e per l’ebrezza della lotta e del pericolo: tutti avevano la voce rauca, tutti avevano fame e cercavano di rifocillarsi, sicché pareva un boccone ghiotto anche il pezzo di pane secco che veniva offerto da chi ne aveva ancora un poco in serbo.
Gli austriaci, sia per indecisione, sia per un certo sprezzo militare di fronte a dei borghesi quasi senz’armi, s’eran lasciati sorprendere il primo giorno, e poi non avevano saputo riaversi con una offensiva risoluta e audace.
Alla fine le barricate, le tegole che piovevano dai tetti, e quell’incessante sonare di tutti i campanili della città avevano sbalordito, scoraggiando i soldati. I generali, tra le notizie incerte, allarmanti, di Vienna, di Torino e delle città lombarde, pressoché tutte insorte, erano rimasti dubbiosi e inerti. Le truppe stettero quasi sempre sulla difensiva certamente ostinata e valorosa, ma i loro assalti alle barricate furono pochi e poco vigorosi.
La sera del quarto giorno gli Austriaci avevano perduto quasi tutti i posti e tutte le caserme dell’interno della città; erano ancora però padroni del Castello e dei bastioni, che circondavano la città, e delle porte.
Tra i posti perduti nell’interno della città c’era stato il palazzo del Genio militare, ove ora si trova la Cassa di Risparmio. Ne aveva diretto la presa Augusto Anfossi, che aveva militato all’estero. Dirigeva il fuoco da un balcone d’una casa dirimpetto, quando una palla lo colpì in fronte. Ma l’assalto era continuato, per opera del manipolo d’insorti capitanati dal Manara, in cui erano i Dandolo, il Morosini, Manfredo Camperio, i Mancini, il Minonzi, ed altri; finché un ciabattino sciancato, Pasquale Sottocorno, si portò ad appiccare il fuoco alla porta della caserma, incendiandola. Così fu costretta alla resa.
“L’assalto a una porta!” fu il pensiero, fu la parola d’ordine dei combattenti, del Governo Provvisorio e del Comitato di difesa, nella notte tra la quarta e la quinta giornata. Con ciò si sarebbe rotto l’anello che circondava la città; gli armati dei paesi vicini sotto le mura sarebbero entrati in Milano, e con essi i viveri che cominciavano a scarseggiare.
L’impresa era certamente grave e difficile, ma in quel momento tutto pareva possibile nell’ebrezza delle prime vittorie.
Alla fine prevalse il progetto dell’assalto a Porta Tosa.
Questo fatto, che ì certamente uno dei più importanti della rivoluzione, fu preparato e diretto con molte cautele, con ordine e con un piano predisposto. Ci furono un’ala destra e un’ala sinistra di combattenti, di fianco al corso, che si avanzavano attaccando le truppe dei bastioni per distrarle dal unto centrale ch’era la porta; e contro la porta furono dirette, lungo il corso, le barricate mobili con le quali si doveva alla fine prenderla d’assalto. I meglio armati, e i più risoluti, avevano il comando dei vari gruppi di combattenti, ai quali era affidata l’esecuzione di questo piano.
Andavano o venivano dal ponte dei piccoli e coraggiosi messaggeri, che avevano libero il passo, e ch’erano gli alunni dell’Orfanotrofio, detti dal popolo i Martinitt. Col loro mezzo i combattenti del corso di porta Tosa comunicavano coi vari punti della città e col Comitato della difesa. Questi valorosi figliuoli della beneficenza cittadina erano argomento dell’ammirazione di tutti.
Verso la sera della quinta giornata le grida di “Vittoria!” fecero accorrere verso il ponte quanti erano in piazza, e questa volta la barriera e i suoi custodi non valsero più a trattenere la gente.