L’insurrezione di Venezia nel 1848

Lo storico Ferdinando Ranalli ricostruisce i concitati momenti dell’insurrezione di Venezia del 1848.

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In Venezia appena suonò il grido dei moti di Vienna e il governatore delle province venete, conte Palffy, annunciò le prime concessioni fatte dall’imperatore, fra le quali l’abolizione della censura, il popolo si mosse, corse in folla nella piazza di San Marco, si ornò di coccarde tricolori; e, rammentandosi che di quella allegrezza non potevano godere coloro che l’avevano col loro coraggio promossa, cominciò a gridare che senza indugio fossero il Manin e il Tommaseo scarcerati. Disponevasi il governo a contentare quel desiderio popolare, quando la moltitudine impaziente andò alle prigioni, chiese che le porte fossero aperte, trasse fuori i due cittadini sopradetti, e sulle spalle come in trionfo li trasportò in piazza San Marco fra clamorose voci. Stavano così le cose, quando giunse la notizia che era stata dall’impeatore concessa la costituzione…

E sulle prime grande allegrezza si destò nella moltitudine, … ma passato il primo fervore, e sempre più conoscendosi le nuove della rivoluzione viennese e il sollevamento delle altre città, non si trattòò più di libertà interna, ma sì di libertà esterna. Torna il popolo ad assembrarsi, la bandiera dei tre colori fanno sventolare, nell’arsenale si fa maggior tumulto, tentano d’impadronirsi dell’armeria e, non essendo riusciti, aspettano al dì appresso per meglio ordinarsi alla vittoria. La quale per dir vero non poteva essere più subita, n+ più allegra. Raccontano che un frate di San Francesco avendo scoperto che dalla marina dovevasi la città bombardare, i popolo assaltò con maggior furia l’arsenale e spiccato il capo al comandante, che era un dalmato, e con quello corso in piazza, e fattolo ruzzolare, atterrì per modo la soldatesca, che sì il governator civile, come il governator militare, deliberarono di abbandonare la città. Trovo pure scritto che il governatore Palffy, avendo dichiarato di non poter consentire che altro vessillo da quello dello Stato in fuori s’inalberasse, e avendo il popolo a quel bando risposto con fremiti e beffe, ordinasse che fuoco si facesse; se non che i granatieri, che di nazione italiana erano, facilmente guadagnati dai Veneti, ricusarono, e in vece obbedì una squadra di Boemi, onde alcuni furono morti, fra’ quali un fanciullo, il cui cadavere preso e mostrato alla moltitudine, servì perchè in maggior furore levatasi, si mise a sconficcare i selci dalla piazza e abbarricarsi, per far impeto contro la soldateria. Egli è certo che il governatore Plaffy, standogli meglio a cuore di salvar la propria vita che speranza non avesse di mantenere la città, spaurito l’abbandonà, deponendo l’autorità sua nelle mani del conte Zichy, comandante della fortezza… Il quale, veggendo che senza spargimento di sangue non sarebbe riescito a tener Venezia, antepose il venire a patti col municipio al vederla insanguinata; e fu scritta e pubblicata la capitolazione…

Rimasta Venezia così subito, e con tanta facilità, in balia di se stessa, i primi sensi che in lei si ridestarono furono quelli della sua repubblica; memoria troppo gagliarda in un popolo che per lunghezza aveva con quel santo nome grandeggiato in Europa…

Adunque assembrato il popolo in piazza, il cittadino Manin proferiva il doppio grido di “viva la repubblica” e “viva San Marco”… Generali allegrezze scoppiarono a quell’annunzio. Parve per un momento ai Veneziani di dover tornare ai lieti giorni della loro prospera grandezza. Il patriarca affacciatosi, benedisse le insegne della libertà recate in giro dal popolo…

Ciò avveniva il 22 marzo, e il giorno 23 schieravansi nella piazza di San Marco le milizie civiche sotto il vessillo dei tre colori.

 

 

 

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