Richelieu e Olivares
John H. Elliott in “Richelieu e Olivares” traccia un interessante raffronto tra i due protagonisti dell’assolutismo seicentesco.
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Ammettendo che il talento politico di Richelieu fosse superiore a quello di Olivares, come la nostra analisi sembra suggerire, è lecito concludere che questo solo fattore sia valso a modificare l’equilibrio nel confronto tra Francia e Spagna? O la Francia sarebbe in ogni caso emersa vittoriosa? Per dirla in altri termini, le personalità e le scelte dei due rivali hanno davvero inciso sul risultato finale?
Una volta Olivares accennò al «suolo della Francia così ricco e il nostro così arido e scabro». Con una popolazione di sedici milioni di abitanti, più del doppio rispetto alla penisola iberica, la Francia poteva per di più vantare un’incontrastata superiorità demografica.
Ma all’alba del XVII secolo una popolazione più numerosa e ricchezze naturali più consistenti non erano di per sé una garanzia di predominio. Filippo IV negli anni ’20 si vantava di avere quasi 300 000 uomini sotto le armi; Luigi XIII negli anni ’30 arrivava a stento alla metà. Tutto ruotava sulla capacità di mobilitare risorse – far affluire senza interruzione riserve di denaro e braccia, non importa se dall’esterno o dall’interno dei confini nazionali. […] Nel XVII secolo uno statista doveva trovare dove poteva uomini, denaro e esperti di cui aveva bisogno. Olivares esplose d’indignazione quando qualcuno si permise di osservare che aveva inserito stranieri nei Consigli di Guerra e delle Finanze. Non avevano forse i francesi «insediato Mazzarino, italiano e vassallo di Vostra Maestà, al posto di primo ministro, lasciato vacante da Richelieu; e non era forse perché era una persona di vaglia», che aveva reso ottimi servigi al re di Francia? […]
Ma se vi erano ovvie rassomiglianze nei metodi adottati dai ministri allo scopo di rinsaldare l’autorità regia, sussistevano anche – ed essi ne erano certo ben consapevoli – profonde differenze nei requisiti per governare Francia e Spagna. […]
Nel XVI secolo la superiore organizzazione amministrativa, la vitalità della Castiglia e le risorse del continente americano avevano consentito di volgere a vantaggio della Monarchia spagnola quello che in potenza era il suo punto più debole – la grande estensione e la diversità degli elementi che la componevano. Ma all’epoca di Olivares le voci passive avevano di gran lunga superato quelle attive: l’apparato amministrativo si stava sclerotizzando, la vitalità della Castiglia si era svilita, le risorse americane declinavano. Fu proprio perché si rendeva conto della situazione che il conte-duca si buttò con tanta energia e abnegazione nell’impresa di rinnovare una struttura antiquata sperando di infonderle nuova vita. L’unità divenne per lui la condizione preliminare alla sopravvivenza, dato che le spese necessarie per proteggere una costellazione di territori che concorrevano in modo diseguale e sovente inadeguato ai costi della difesa imperiale stavano superando i presunti benefici offerti dall’impero. Costruire quest’unità significava però bandire annosi pregiudizi, spezzare abitudini consolidate, portare una ventata di dinamismo in istituzioni troppo felicemente ancorate al passato. La forza d’inerzia era impressionante nella Monarchia spagnola e il conte-duca non si faceva illusioni sul prezzo che avrebbe dovuto pagare. […]
Olivares aveva dunque di fronte a sé il compito di ammodernare e rivitalizzare la Monarchia spagnola senza che gli si sbriciolasse tra le dita. In questo dovette dichiarar fallimento. Il problema del suo rivale era invece di ricomporre un paese che si era disgregato. Spaccature religiose e faziosità aristocratica, eredità di quarant’anni di guerra civile, rendevano gli impegni immediati del governo molto più ardui in Francia che in Spagna, anche se al contempo, stimolando una reazione naturale a favore dell’ordine e della disciplina, può darsi abbiano accresciuto per un ministro tenace, determinato a restaurare e rafforzare l’autorità della Corona, le probabilità di successo a lunga scadenza. […]
Svolgendo compiti di esattore e adoperandosi per soffocare le rivolte cui le sue stesse attività fornivano la miccia, l’intendant contribuì non poco – sebbene ad alti costi – alla vittoria finale della Francia. Ma fu in realtà proprio la guerra a giustificare l’impiego dell’intendant e a trasformarlo da mediatore accidentale in funzionario regolare dell’amministrazione regia. Il conflitto agì insomma da pungolo, non da freno all’introduzione delle riforme. A Richelieu andava il merito di aver saputo plasmare – sebbene con risultati precari – uno stato vittorioso in guerra, sfruttando proprio le vicende belliche per portare avanti il processo della sua creazione.
Se avesse vinto, Olivares avrebbe fatto lo stesso. Ma ne uscì sconfitto, con conseguenze per la Spagna che si moltiplicarono a catena. Toccò al nipote e successore, Don Luis de Haro, protrarre le operazioni militari nella speranza di recuperare una parte delle perdite, ma i tentativi di riformare e trasformare la Monarchia spagnola furono abbandonati dopo il 1643, diciamo per consenso universale. Il conte-duca divenne una non-persona e la sua eredità riformatrice venne consegnata, con il resto della sua opera, all’oblio, dal quale sarebbe uscita soltanto nel secolo seguente e sotto una nuova dinastia.
All’opposto, in Francia, Richelieu nel suo trionfo aveva inventato quella che aveva tutta l’aria di una formula per il successo, modificando nel contempo in modo radicale il profilo del dibattito politico. Si poteva magari ingiuriarne il nome, ma era impossibile negare la portata delle sue realizzazioni, anche se gli sconvolgimenti della Fronda a pochi anni di distanza dalla sua morte misero a nudo la pericolosa fragilità della struttura che aveva edificato. […] Lo Stato di Richelieu, così come ce lo presentano molti storici, era lo Stato del futuro: centralizzato, compatto e saldamente fondato sul principio dell’identità nazionale. In questa chiave di lettura, Richelieu diventa un simbolo del futuro e Olivares del passato. […]
Questa analisi storica dei primi decenni del XVII secolo implica che la Spagna fosse condannata alla sconfitta sin dall’inizio. Un giudizio che a dire il vero sa di determinismo semplicistico. Spagna e Francia dovevano vedersela con problemi di ordine diverso – il rinnovamento economico e spirituale per la prima, il recupero della coesione e dei valori nazionali per la seconda. È possibile che la società francese in questo periodo avesse più energia creativa di quella spagnola, gravata dal peso di un glorioso passato. Ma le energie creative dovevano in qualche modo essere imbrigliate per evitare che andassero sprecate, ed è proprio quanto cercò di fare Richelieu attraverso la guerra con la Spagna. Il rischio era elevato: dubitiamo che chiunque altro sarebbe riuscito a mantenere il paese sulla rotta prestabilita. Sino alla débâcle del 1639-40 le sorti della guerra rimasero in equilibrio; ci vollero comunque altri vent’anni e una serie di complicazioni che misero a repentaglio l’intera politica del cardinale, prima che i suoi successori potessero raccogliere i frutti delle sue fatiche.
Un margine ristretto separò l’apoteosi di Richelieu dalla disfatta di Olivares. Venne questi sconfitto dal superiore genio politico del cardinale o dalla forza delle probabilità contrarie all’impervia scalata in cui si era buttato anima e corpo, o magari da entrambe le cose?