La battaglia della Bicocca vista da Guicciardini

La battaglia della Bicocca si svolse nel 1522 nei pressi della Bicocca degli Arcimboldi, a Milano. Le truppe di Carlo V comandate da Prospero Colonna, Francesco Sforza e dal napoletano Fernando Francesco d’Avalos, marchese di Pescara, sbaragliarono i francesi, preludio della definitiva disfatta di Pavia. Riportiamo la ricostruzione dei fatti riferita da Francesco Guicciardini.

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Sebbene nelle Diete degli Svizzeri fosse stata sopra le domande del Re di Francia grandissima contenzione stando ostinati contro di lui i Cantoni di Zurigo e di Svitto, quello di Lucerna era disposto totalmente per lui; gli altri eran divisi tra sè medesimi: e perturbando le cose pubbliche l’avarizia de privati, de quali molti domandavano al Re, chi pensioni, e chi crediti antichi, avevano finalmente conceduto li fanti domandati per la ricuperazione del Ducato di Milano, i quali in numero più di diecimila calavano giù in Lombardia, condotti dal Bastardo di Savoja, e da Galeazzo da Sanseverino, questo Grande Scudiere, quello Gran Maestro di Francia, per le montagne di San Bernardo e di San Gottardo. Contra questo movimento, Cesare (che fu poi Carlo V), il quale aveva ricevuto in prestanza non piccola somma di danari dal Re d’Inghilterra, alienatosi dall’amicizia francese, aveva mandato a Trento Girolamo Adorno a soldare seimila fanti tedeschi per condurli insieme con la persona di Francesco Sforza in Milano; la venuta del quale era in quel tempo stimata di molto momento, per tenere più fermo Milano, e le altre terre dello Stato, che sommamente lo desideravano, e per facilitare l’esazione del danari con l’autorità e grazia sua, de quali vi era estrema carestia. Nel qual tempo medesimo essendo incognito a Milano il provvedimento fatto da Cesare, avevano i Milanesi mandato danari a Trento per soldare quattromila fanti, i quali essendo già preparati quando l’Adorno vi pervenne, egli, mentre che gli altri seimila soldavano, si mosse subito con questi verso Milano, per scendere per Valle Voltolina a Como: ma negandogli i Grigioni il passare, passò all’improvviso, e con tanta celerità nel tenitorio di Bergamo, e di quivi nella Ghiaradadda, che i Rettori de Veneziani, che erano in Bergamo, non furono a tempo a impedirlo; e condottigli a Milano, ritornò colla medesima celerità a Trento per menare Francesco Sforza e gli altri fanti a Milano, nella quale città s’attendeva, oltre l’altre provvisioni, con grande studio ad accrescere l’odio del popolo, che era grandissimo contra i Francesi, acciocchè fossero più pronti alla difesa e a soccorrere co danari propri le pubbliche necessità: cosa molto eccitata con lettere finte, con ambasciate false, e con molte arti ed invenzioni dalla diligenza ed astuzia del Morone; ma giovarono anco più, che non si potrebbe credere, le predicazioni di Andrea Barbata, frate dell’Ordine di Sant’Agostino, il quale predicando con grandissimo concorso del popolo, lo confortava efficacissimamente alla propria difesa, e a conservare la patria libera dal giogo de’ Barbari nimicissimi di quella città, poichè da Dio era stato conceduto loro facoltà di liberarsene: allegava l’esempio di Parma, piccola e debole città a comparazione di Milano: ricordava gli esempi de loro maggiori, il nome de quali era stato glorioso in tutta Italia: quello che gli uomini anco debitori alla conservazione della patria, per la quale, se i Gentili che non aspettavano altro premio che quel della gloria, si mettevano volontariamente alla morte, che dovevano fare i Cristiani, a quali, morendo in sì santa opera, era, oltre la gloria del mondo, proposta per premio vita immortale nel Regno Celeste? Considerassero, che eccidio porterebbe alla città la vittoria de Francesi, i quali se prima senza cagione erano stati tanto acerbi, e molesti loro, che farebbono ora che si riputavano sì gravemente offesi, e ingiuriati? Non potere saziare la crudeltà e l’ odio loro immenso alcuni supplici del popolo milanese; non empiere l’avarizia, le facultà tutte della città; non sarebbero mai contenti i Francesi, se non spegnessero in tutto il nome e la memoria del Milanesi, se con orribile esempio non avanzassero la fiera inumanità di Federico Barbarossa. Donde tanto erasi aumentato l’ odio de Milanesi, tanto lo spavento delle vittorie de Francesi, che non è a dirne: ma da più saggi dicevasi fosse più necessario attendere a temperargli, che a provocargli. Attendeva in questo mezzo Prospero Colonna con grandissima diligenza a riordinare e ristaurare i bastioni e i ripari de fossi, con intenzione di fermarsi in Milano, nella quale città, quando bene non fossero venuti i seimila Tedeschi, sperava potersi sostenere per qualche mese, avendo con sè mila e settecento uomini d’ armi, settecento cavalli leggieri, e dodicimila fanti. Restava il pericolo imminente, che i Francesi non entrassero per lo Castello in Milano; al quale pericolo per provvedere, e per privarli con un fatto medesimo della facultà di mettere nel Castello vettovaglie, o altre provvisioni, fece con invenzione sommamente laudata, e a giudizio degli uomini quasi meravigliosa, lavorare fuora del Castello, tra la porta Vercellina e la Comasina, due trincee, alzando a ciascuna della terra, che si cavava da quelle uno argine, la lunghezza delle quali distante l’ una dall’ altra circa venti passi, si distendeva circa un miglio tanto quanto era il traverso del giardino dietro al Castello tra le due strade predette, e a ciascuna delle teste delle trincee un cavaliere molto alto e munito, e per potere con artiglierie, che si piantasser sopra quei, danneggiare i nimici, se si accostassero da quella parte; le quali trincee e ripari difese da’ fanti alloggiati in mezzo di quelle, impedivano in un tempo medesimo, che nel Castello non potesse entrare soccorso alcuno, e che niuno degli assediati potesse uscirne: la quale invenzione dover essere non meno felice, che ingegnosa, dimostrò nel principio con lieto augurio la fortuna, concedendo che senza danno alcuno si potesse mettere in esecuzione, perchè essendo caduta in terra una neve grandissima, Prospero usando il beneficio del cielo, fece innanzi giorno lavorare di neve due argini, alla similitudine del quali voleva si facessero i ripari, da quali rimanevano sicuri i lavorati di non poter essere offesi dalle artiglierie, che erano nel Castello; le quali opere che si conducessero a perfezione, dètte comodità maggiore l’impedimento, che dall’essere le montagne coperte di copia grandissima di neve, ricevevano gli Svizzeri a passarle. Nel qual tempo Lautrec, avendo con alcune genti mandate di là da Po, fatto svaligiare in Firenzuola la compagnia del cavalleggieri di Luigi Gonzaga, trovata negligentemente a dormire, riordinava le genti sue, e quelle de’ Veneziani sotto Andrea Gritti e Teodoro Triulzi, si raccoglievano intorno a Cremona; le quali finalmente unite con gli Svizzeri, passarono il fiume dell’Adda il primo giorno di marzo, essendo capo dell’esercito Lautrec, all’autorità del quale non era derogato per la venuta del Gran Maestro e del Grande Scudiere. Venne a questo esercito nel tempo medesimo Giovanni de Medici, il quale benchè trattando strettamente condursi a soldi di Francesco Sforza, e già si fosse mosso per andare a Milano, ov era aspettato con sommo desiderio, per la espettazione grande che si aveva della sua ferocia; non di meno stimolato dagli stipendi maggiori e più certi del Re di Francia, e allegando il non essergli stati mandati i denari promessi da Milano, nel Parmigiano, ove aveva saccheggiato la terra di Busseto, perchè ricusava d’alloggiarlo, passò nel campo de’ Francesi, il quale alloggiò due miglia appresso al Castello tra le unedesime vie Vercellina e Comasina. Mossonsi il terzo giorno che eran venuti in ordinanza, facendo sembiante di voler dare la battaglia al riparo; il che non posono a effetto, o perchè così fosse da principio la mente di Lautrec, o perchè considerato il numero de soldati, che erano dentro, la disposizione del popolo, e la prontezza che appariva de’difensori, se ne rimovesse per la difficoltà manifesta della cosa: ma il giorno medesimo i sassi d’una casa battuta dall’artiglieria di dentro, ammazzarono Marc’Antonio Colonna, capitano di grandissima espettazione, e Camillo Triulzio figliuolo naturale di Gianiacopo, che presso a quella casa passegiavano insieme, ordinando di far lavorare un cavaliere per poter tirare con l’artiglierie tra i due ripari de’nimici. Ma Lautrec, non confidando di espugnare Milano, pensava potere con la lunghezza del tempo pervenire alla vittoria, perchè la moltitudine de’ suoi cavalli, e di tanti fuorusciti che lo seguitavano, facendo correre per la maggior parte del paese, dava impedimento assai che non vi entrassero vettovaglie : aveva fatto rompere tutti i mulini e deviate l’acque de canali, da quali riceve la città grandissime comodità: sperava similmente che a soldati di dentro avvessero a mancare gli stipendi, i quali si sostenevano co’danari pagati dai Milanesi, perchè da Cesare, dal Reame di Napoli, e d’altro luogo ne era mandata piccolissima quantità. Ma era meraviglioso l’odio del popolo contro i Francesi; meraviglioso il desiderio del nuovo Duca, per le quali cose tollerando pazientemente qualunque incomodità, non solo non mutavano volontà per tante molestie, ma messa in arme la gioventù, e eletti per ciascuna Parrocchia capitani, concorrendo prontissimamente dì e notte le guardie a luoghi remoti dell’esercito, alleggerivano molto le fatiche del soldati; nel qual tempo essendo per la ruina delle mulina mancata la farina provviddero presto con le mulina a secco a questa incomodità, così ridotta la guerra da speranza di presta espugnazione a cure e fatiche di lungo assedio. Il Duca di Milano, la partita del quale, per mancanza di danari, si era differita di molti giorni, e si sarebbe differita più lungamente se il Cardinale de Medici non l’avesse sovvenuto di novemila ducati, partito finalmente da Trento con seimila fanti Tedeschi, e occupata per aprirsi il passo, la Rocca di Croara sottoposta a Veneziani, passò senza ostacolo per lo Veronese; donde per lo Mantovano passato il Po a Casal Maggiore, giunse a Piacenza, e seguitandolo di quivi il Marchese di Mantova con trecento uomini d’arme della Chiesa, si fermò a Pavia, stando intento all’ occasione di passare a Milano, ove estremamente era desiderata la venuta sua, perchè diminuendo ogni giorno più la facultà del fare danari per sostenere le genti, si giudicava necessario unirsi il più presto che si potesse co’ Tedeschi per uscire in campagna, e cercare di terminare la guerra; ma era difficile il passare, perchè Lautrec come intese essere arrivati a Piacenza, era andato ad alloggiare a Casino, cinque miglia lontano da Milano sulla strada di Pavia, avendo messo i Veneziani a Binasco sulla medesima strada, e l’uno e l’altro esercito in alloggiamento ben riparato e fortificato, dove poi che furono dimorati qualche dì, avendo in questo tempo preso S. Angelo e S. Colombano, Lautrec inteso che lo Scudo suo fratello tornato con danari di Francia, dove era andato a dimostrare al Re lo stato delle cose, soldati fanti a Genova, era arrivato nello Stato di Milano, mandò a unirsi con lui Federico da Bozzolo con quattro cento lance, e sette mila fanti tra Svizzeri e Italiani; per la venuta de quali il Marchese di Mantova uscito di Pavia, andava a Gambalo per opporsi loro, ma io avendo essi mostrato per lo sospetto, come diceva egli, di ritirarsi verso il Tesino, non giudicando più necessaria la sua presenza a Gambalo, o come più presto credo, temendo di loro per esser più grossi di quello gli era stato riferito, se ne ritornò in Pavia; ma essi venuti a Gambalo, e uniti con lo Scudo, se n’andarono a Novara, e prese le artiglierie della Rocca, che si teneva per loro, avendola battuta, la presono per forza al terzo assalto con la morte della più parte del fanti, che vi erano dentro, e restato prigione Filippo Torniello. Per lo qual caso il Marchese di Mantova, il quale sollevato da lettere, e spessi messi del Torniello, che andasse a soccorrerlo, era uscito di nuovo da Pavia, subito che n’ebbe notizia, cavate le sue genti di Vigevano, lasciato solamente guardata la Rocca, ritornò a Pavia. Ma fu di nocumento in caso più importante l’ unirsi con lo Scudo, e l’acquisto di Novara a Francesi, perchè facilitò l’andata di Francesco Sforza con i fanti Tedeschi a Milano. Gli andò incontro Prospero Colonna con una parte delle genti, e lo condusse a Milano: dove è incredibile a dire con quanta letizia fosse ricevuto dal popolo milanese, per la memoria della felicità con la quale era stato questo popolo sotto il padre e gli altri Duchi Sforzeschi. Intanto il Lautrec tentava di prendere Pavia, ma andandogli fallita l’impresa se ne andò a Monza dalla via di Landriano, per ricevere più facilmente i danari, che gli erano mandati di Francia, i quali si erano fermati ad Arona; perchè Achille Visconti mandato da Milano a quest’effetto a Busto presso ad Arona impediva non venissero più innanzi. Questa difficoltà ridusse in ultimo disordine le cose dei Francesi, perchè gli Svizzeri, i pagamenti de quali eran ritardati già molti dì, impazienti secondo il costume loro, mandarono i loro capitani al Lautrec a querelarsi gravemente, che essendo stata quella nazione prodiga in ogni tempo del sangue proprio per l’esaltamento della Corona di Francia, fosse contro ogni giustizia mancata loro de debiti pagamenti, e dimostrato con questa ingratitudine e avarizia a tutto il mondo, quanto poco fosse stimata la virtù e la fede loro: essere deliberati, avendo aspettato tanti di invano, non aspettare più termine alcuno, nè fidarsi di quelle promesse, che replicate tante volte gli erano mancate; però volere ritornarsene assolutamente alle case loro: ma fatto prima manifesto a tutto il mondo, che .non gli induceva a questo il timore dell’essere usciti in campagna i nimici, nè il desiderio di fuggire i pericoli, a quali sono sottoposti gli uomini militari, disprezzati, sempre mai, come per tante esperienze s’era veduto dagli Svizzeri; notificargli ch’erano pronti a combattere il dì seguente con intenzione di partirsi poi l’altro giorno; menassegli a ttrovare inimici, usasse dell’occasione della prontezza loro, mettendogli nella prima fronte di tutto l’ esercito; sperare che avendo vinto con forze molto minori nel proprio alloggiamento l’esercito francese, intorno a Novara, vincerebbono anche nel loro alloggiamento gli Spagnuoli, i quali sebbene d’astuzia, di fraude e d’insidie avanzavano i Francesi, non gli riputavano già superiori, dove si combattesse con la ferocia del cuore, e con la virtù dell’armi. Sforzossi Lautrec, considerando con quanto pericolo si andasse ad assaltare inimici nelle fortezze loro, di temperare questo furore, dimostrando, non per difetto del Re ma per i pericoli del cammino, procedere la tardità del danari, i quali nondimeno arriverebbono fra pochissimi di ma non potendo convincerli, o fermarli nè con l’autorità, nè co’prieghi, nè con le promesse, nè con le ragioni, deliberò più presto; avendo massimamente da essere il primo pericolo loro, con disavvantaggio grande tentare la fortuna della giornata, che ricusando di farla, perder totalmente la guerra, come era manifesto, che si perdeva, poichè non consentendo di combattere, gli Svizzeri avevano determinato di partirsi.
Alloggiava l’esercito de’nimici alla Bicocca, villa propinqua tre miglia, poco più o meno, da Milano, ove risiede un casamento assai spazioso, circondato di giardini non piccoli, che hanno per termine fosse profonde: i campi che sono attorno, sono pieni di fonti e di rivi, condotti, secondo l’uso di Lombardia, ad innaffiare i prati, verso il qual luogo camminando da Monza, Lautrec con l’esercito, e pensando che i nimici, avendo l’alloggiamento tanto forte, sarebbono fermi alla difesa di quello, aveva ordinato l’assalto in questo modo: Che gli Svizzeri con le artiglierie andassero ad assaltare la fronte dell’alloggiamento, e le artiglierie de nimici; nel qual luogo erano a guardia i fanti tedeschi guidati da Giorgio Frondsberg: che dalla mano sinistra lo Scudo con trecento lance, e con uno squadrone di fanti francesi ed italiani, camminasse per la via che andava a Milano, verso il ponte, per lo quale si poteva entrare nell’alloggiamento de’nimici. Egli si tolse l’assunto di ingegnarsi d’entrare con uno squadrone di cavalli nell’alloggiamento loro più con artificio, che con aperta forza: perchè per ingannargli, comandò che ciascuno de’ suoi, mettesse su la sopravveste la croce rossa, segnale dell’esercito imperiale, in cambio della croce bianca, segnale dell’esercito francese. Dall’altra parte Prospero Colonna, tenendo, per la fortezza del sito, per certa la vittoria, e perciò deliberato d’aspettare (così diceva) inimici al fossone, fatto, come intese la venuta loro, armare l’esercito, e distribuito ciascuno a luoghi suoi; mandò subito a Francesco Sforza, che con la moltitudine del popolo venisse senza indugio alcuno all’esercito; il quale raccolto al suono della campana quattrocento cavalli e seimila fanti, fu da lui, come giunse, collocato alla guardia del ponte. Ma gli Svizzeri come si furono accostati all’alloggiamento, con tutto che per l’altezza delle fosse più eminenti ch’essi non avevano creduto, non potessero, come era la prima speranza, assaltare le artiglierie; non diminuita per questo l’audacia, assaltarono le fosse sforzandosi con ferocia grande di salirvi, e nel tempo medesimo lo Scudo andato verso il ponte, trovandovi, fuora dell’opinione sua, guardia sì grande, fu costretto di ritirarsi. Scoperse anco prestamente Prospero Colonna l’arte di Lautrec, e perciò fatto comandamento ai suoi, che si mettessero sulla testa fasci di stighe e d’erbe, fece inutili le insidie sue; d’onde restando tutto il pondo della battaglia agli Svizzeri, che per la iniquità del sito, e per la virtù dei difensori, s’affaticavano senza far frutto alcuno, ricevendo grandissimo danno, non solo da quelli che combattevano alla fronte, ma da molti archibusieri spagnuoli, i quali occultatisi tra le biade, già presso che mature, fieramente per fianco gli percuotevano: furono finalmente, poichè con molta uccisione ebbero pagata la mercede della loro temerità, necessitati a ritirarsi : e uniti co Francesi ritornarono tutti insieme con gli squadroni ordinati, e con le artiglierie a Monza, non ricevendo nel ritirarsi danno alcuno. Voleva il Marchese di Pescara e gli altri Capitani, che si inseguissero i nimici; ma vi si oppose con saggio accorgimento il Colonna, dichiarando che non si debbono seguire i nimici, che fuggono in ordinanza. Morirono degli Svizzeri intorno al fosso, circa tremila di quelli, che per essere più valorosi e feroci, si messono più prontamente al pericolo; e ventidue capitani. De nimici morirono pochissimi, nè persona alcuna di qualità, eccetto Giovanni di Cardona, conte di Culisano, percosso d’uno scoppietto nell’ elmetto. Il giorno seguente, Lautrec perduta interamente la speranza della vittoria, si levò da Monza per passare il fiume dell’Adda appresso a Trezzo ; donde gli Svizzeri preso il cammino per lo tenitorio di Bergamo ritornarono alle loro montagne diminuiti di numero, ma i molto più d’audacia; perchè è certo, che il danno ricevuto alla Bicocca gli afflisse di maniera, che per più anni poi non dimostrarono il solito vigore. Lautrec date alcune disposizioni, se ne ritornò in Francia, riportando al Re non vittorie o trionfi, ma giustificazione di sè proprio, e querele d’altri, per la perdita di uno Stato, occasionata dalla negligenza, da pessimi consigli, dall’audacia, dalla malignità della fortuna; ma più di tutto per la mancanza di danari.

 

 

 

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