Il grande patrimonio preistorico e antico pugliese

La Puglia conserva un inestimabile patrimonio preistorico ed antico, spesso sparso in più musei lungo lo stivale. La nostra attenzione si riversa sulle strutture megalitiche, sui grifoni di Ascoli Satriano, sulle meravigliose ceramiche preromane, sulla raffinata composizione che orna la Tomba delle Danzatrici di Ruvo di Puglia.

  • Il fenomeno del megalitismo

Blocchi di pietra grezza sommariamente squadrata e di grandi dimensioni, si ergono come testimonianze misteriose e mute d’una storia ancora da scrivere.

Dolmen e Menhir sono associati nell’immaginario collettivo alla cultura celtica o all’Irlanda eppure se ne sono individuati nel Mediterraneo, in Asia, in Africa e dominano anche il nostro Tavoliere. Dolmen sono particolarmente diffusi nel Salento e nel barese, nel territorio di Bisceglie, nel brindisino a Cisternino e Montalbano e nel tarantino a Statte, e centinaia di Menhir si contano in tutta la Puglia come quello di Zollino o Stazione.

Furono forse templi, altari per riti sacrificali, portali per mettersi in contatto con la divinità o camere sepolcrali? I cultori della New Age ci hanno visto di tutto, ma anche gli archeologi stentano ad individuarne con precisione la funzione.

In alcuni casi è accertata la destinazione funeraria con ritrovamenti di ossa e piccoli oggetti di corredo, armi in selve, vasellame ed ornamenti. Si tratterebbe dunque di tombe collettive monumentali in cui furono disposti più defunti in tempi diversi. In mancanza di dati certi, l’interpretazione è affidata esclusivamente ad ipotesi e si conviene genericamente che si tratti di monumenti di carattere religioso o cultuale.

I Dolmen si presentano come camere composte da due lastre di pietra poste verticalmente a reggere un architrave di copertura precedute da una sorta di corridoio con blocchi di pietra verticali ed il suolo lastricato. In quelli di Gurgulante e Placa le grandi pietre laterali hanno una dimensione inferiore a quella centrale, che risulta così imponente e sproporzionata rispetto ai pilastri che la sostengono, ma i dolmen pugliesi presentano spesso altre peculiarità: l’asse della struttura rivolto in direzione Est – Ovest, con l’apertura rivolta ad Oriente.

Funzione chiaramente sacra ebbero i Menhir. Questi singoli blocchi di pietra dalla forma allungata conficcati nel terreno erano forse un simbolo dell’asse cosmico, una linea retta che univa simbolicamente i tre mondi, quello celeste, quello umano e quello di sotto. Molti furono i Menhir scomparsi con la spietratura dei terreni, numerosi ancora furono abbattuti in virtù di leggende popolari che vi collocavano nascondigli di tesori, altri ancora se ne persero perché, divenuti oggetto di culto, furono abbattuti dai cristiani o convertiti in croci. Sei ne sono visibili a Muro Leccese, tre a Terlizzi, due a Modugno. Il più alto d’Italia è il menhir di Martano e raggiunge i 5,2 metri.

Ma il megalitismo in Puglia ha anche il profilo delle Specchie, manufatti realizzati con la sovrapposizione a secco di lastre calcaree provenienti dallo spietramento a mano dei soprasuoli murgiani e salentini, la cui funzione è ancora una volta un mistero.
Alcuni studiosi credono che fossero posti sepolcrali, altri che fossero punti d’osservazione e da qui il nome dal latino specula. Sono concentrate nell’area tra Ceglie Messapica, Villa Castelli e Francavilla Fontana, e nella zona del Salento; alti fino a quindici metri si innalzano in forma conica ed all’interno non custodiscono nulla. Le Specchie sono presenti per lo più vicino alla costa, collocate su delle alture in modo tale da avere una visuale privilegiata per il costante controllo del litorale. Ciò rafforza la tesi che servissero come posto di vedetta per controllare la costa.

Mentre in alcuni casi i Dolmen hanno restituito parziali testimonianze, oltre che scheletriche anche oggettuali sotto forma di manufatti in ceramica o in metallo che ne hanno permesso la categorizzazione come tombe, Specchie e Menhir non hanno consegnato alcuna documentazione archeologica. Ciò aumenta il fascino di questi manufatti e spalanca davanti al viaggiatore remote suggestioni.

 

  • Ceramiche preromane

A partire dall’XI secolo a.C. si sviluppa in Puglia una produzione di ceramica segnata da elementi peculiari e vivaci.Tre aree distinte, l’area daunia, comprendente la provincia di Foggia e Melfi, l’area peucezia nel Barese e quella messapica nel Salento, maturarono un bagaglio artistico fatto di decorazioni semplici a motivi geometrici su argille depurate di colore chiaro.

La produzione dauna è la prima a svilupparsi e la più vitale. Se ne hanno tracce a partire dal IX secolo a. C. sino alle soglie dell’età ellenistica. Dall’antica Canosa ci sono giunti esemplari di olla con labbro ad imbuto decorati a due colori in bruno e rosso cupo con forme geometriche. Motivi del genere raggiungono la massima cura tra la metà del VI ed il V secolo a. C. e vanno a definire quella che gli esperti chiamano ceramica “listata” canosina.

La ceramica dauna è caratterizzata da singolari decorazioni plastiche, con probabile significato magico, applicate ai bordi delle brocche, le cui anse vanno a formare strane figure dalle lunghe orecchie appuntite, con le mani all’orlo del vaso, forse retaggio di antiche credenze animistiche.

Su brocche e vasi, fasce bicrome, rombi, intelaiature di rette continue, spezzettate o incrociate incontrano non di rado forme plastiche di vegetali e spirali, motivi umani e viticci in bruno o rosa su fondo color crema.

Intorno al V secolo la diffusione di modelli greci aveva già condotto alla creazione di officine di prodotti a vernice rossa, ma il modello indigeno non scomparve su piccole oinochoe, skyphos a vernice nera, kernos, coppe ed askos.

L’ellenizzazione è evidente nelle produzioni delle botteghe peucezie che, dopo una prima lunga fase di influenza mista dauna e messapica, maggiormente si conformarono ai modelli colonie greche del golfo di Taranto. I centri pauceti di Bitonto, Ruvo, Gravina, Rutigliano e Gioia mostrano infatti creazioni con figurine umane con il corpo a doppio triangolo caratteristiche dello stile geometrico attico e file di animali che ricordano le ceramiche protocorinzie, il tutto rivisto da artisti indubbiamente meno raffinati.

I corredi delle sepolture evidenziano una esplosione di schemi geometrici anche in Messapia dove la decorazione geometrica si fece più raffinata e fissandosi nella forma tradizionale della “trozzella”, una piccola anfora panciuta caratterizzata da quattro coppie di rotelle disposte a decorare le anse. L’influenza greca è comunque sempre mediata dall’interazione di un variegato elemento locale il cui carattere più vistoso resta sempre il disegno geometrico con motivi incentrati su cerchi, tratteggi, triangoli variamente composti per tutta l’età del Bronzo.

 

  • Le danzatrici di Ruvo

Una lastra tombale, ritrovata a Ruvo di Puglia il 15 novembre del 1833, testimonia il notevole gusto del colore dei popoli italici. Una raffinata composizione è la suggestiva decorazione pittorica che orna la Tomba delle Danzatrici di Ruvo di Puglia, oggi conservata al Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

Realizzata agli inizi del IV secolo a. C., ripropone una geranos, l’antica danza circolare che imitava il volo delle gru. Chi la ammira può comprendere come l’arte decorativa italica mostri, a compensazione di una scarsa attenzione verso l’aspetto figurativo, una elegante  ricerca del colore.

Avanza verso destra una teoria di numerose figure femminili che si tengono la mano. Il loro movimento scandisce l’esecuzione di una danza con un tripudio di colori, netti e pieni, accostati in un contrasto di toni caldi e freddi dalla grande resa visiva. Le donne, avvolte in un ampio mantello che le copre dalla testa alle spalle, mostrano nella parte inferiore del corpo delle vesti di tessuto leggero con sinuose linee ondulate che indicano il movimento delle gambe. Tutto si regge sul ritmo dei colori. Sono i colori che danno eleganza e solennità alla composizione, essi definiscono le figure, le staccano dal fondo neutro, suggeriscono l’idea di movimento. L’uso del cinabro, costoso pigmento minerale, indica una committenza raffinata e costosa, per l’aristocrazia peuceta.

Nell’antica Ruvo di Puglia, in provincia di Bari, fu rinvenuta questa tomba ipogeica a semi-camera. L’affresco delle danzatrici fu staccato dalle pareti, smembrato e venduto al Real Museo Borbonico di Napoli.

Questo affresco rappresenta non solo una delle più significative espressioni artistiche dell’Italia indigena ma soprattutto uno dei segni più evidenti dell’adozione da parte delle élites locali della cultura greca. L’abbigliamento è sicuramente quello italiota ma la danza rimanda al mondo religioso ellenico. La danza è indubbiamente quella del mito di Teseo che libera gli ateniesi del Minotauro. Plutarco infatti ci tramanda che: “Nel viaggio di ritorno da Creta Teseo si fermò a Delo. Dopo aver sacrificato al dio e offerto come dono votivo l’immagine di Afrodite che aveva ricevuta da Arianna, eseguì insieme coi ragazzi una danza che dicono sia ancora in uso presso quelli di Delo e che riproduce i giri, i passaggi del Labirinto: una danza consistente in contorsioni ritmiche e movimenti circolari. Questo genere di danza gli antichi la chiamarono “la gru” secondo quanto afferma Dicearco. Teseo la eseguì anche intorno all’altare chiamato “Cheratone” intessuto di corni, tutti piegati a sinistra…”.

  • I Grifoni di Ascoli Satriano

Nel Polo Museale di Ascoli Satriano, in provincia di Foggia, si possono ammirare i famosi Grifoni di Ascoli Satriano. Parte di una più ampia collezione di marmi, i Grifoni sono il pezzo più pregiato tra i rinvenimenti delle necropoli della Valle del Carapelle. La Daunia ha custodito per secoli questo prezioso marmo proveniente dalle cave della città di Afrodisia in Caria, Turchia, e ritraente i fantastici animali nell’atto di sbranare una cerva.

Si tratta di un trapezophoros, ovvero un sostegno per mensa, alto novantacinque centimetri e lungo centoquarantotto. Ciò che colpisce di questi reperti è la preziosità del marmo, unita alla decorazione, che conserva tutta la sua intatta bellezza a distanza di un tempo così lungo ma non altrettanto forte da consumarla. I colori sono sgargianti: su una base verde, il corpo della cerva e l’interno delle ali dei predatori sono dipinti in giallo, con solchi tra le piume resi in azzurro sfumato di bianco. E’ proprio questa policromia a colpire. Parte integrante del corredo funerario di una tomba, il marmo raffigura i grifoni come animali mostruosi con il corpo di leone e la testa di drago, una cresta sul capo ed ali enormi. Sono in azione di caccia mentre bloccano a terra con gli artigli una cerva che emerge col muso, distesa per terra con le zampe anteriori piegate e quelle posteriori del tutto stese. Una posa plastica di grande effetto.

Questa scultura dell’antica Ausculum preromana è considerata un’opera unica nel suo genere di cui non esistono precedenti analoghi. Gli accostamenti cromatici riflettono il gusto per la policromia delle aristocrazie daune del IV secolo a.C.. La tomba di provenienza fu scoperta tra il 1976 ed il 1977. L’opera fu poi spezzata, portata fuori l’Italia e venduta. Dopo lunghe peripezie e la confessione del tombarolo che aveva ceduto pezzi al Poul Getty Museum di Los Angeles, i Grifoni di Ascoli Satriano tornarono in Italia.

 

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

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