La terra dei miti
I grandi miti dell’antichità classica trovano nella Penisola Italiana il teatro delle loro storie e molti sono i luoghi nostrani che combinano la loro bellezza con affascinanti resti del passato ed echi mitologici di eroi, sirene, mostri e divinità. Si potrebbero tracciare dei veri e propri itinerari legati all’Odissea di Omero, all’Eneide di Virgilio…
Il mito di Scilla e Cariddi
Il mito da cui iniziamo è quello di Scilla e Cariddi, due mostri nello Stretto di Messina.
Scilla è un mostro marino dal corpo di donna, circondato nella parte inferiore da sei cani feroci che ingurgitano tutto ciò che pasa alla loro portata. Dimorante nello stretto di Messina, sulla costa calabrese, nel racconto omerico, divorò Stesio, Ormenio, Anchimo, Ornito, Sinopo e Anfinomo, sei compagni di Ulisse che con lui stavano costeggiando la grotta in cui la creatura orribile si nascondeva. Nel racconto omerico si legge: “Scilla ivi alberga, che moleste grida di mandar non ristà. La costei voce altro non par che un guaiolar perenne di lattante cagnuol: ma Scilla è atroce mostro, e sino a un dio, che a lei si fesse, non mirerebbe in lei senza ribrezzo, dodici ha piedi, anteriori tutti, sei lunghissimi colli e su ciascuno spaventosa una testa, e nelle bocche di spessi denti un triplicato giro, e la morte più amara di ogni dente”.
La sua origine è dibattuta. Controverse genealogie ne vogliono padre Trieno oppure Forcide, altro dio marino. Nell’Odissea, è presentata come figlia della dea Crateide; altrove è figlia di Ecate e di Forbante o Forcide. Come la maggior parte dei mostri la si è anche considerata figlia di Tifone e di Echidna oppure di Lamia.
Ovidio racconta che Glauco, il dio marino per metà pesce, la amasse e per lei rifiutò l’amore della maga Circe che trasformò Scilla con un intruglio di erbe mescolate nell’acqua in cui lei si bagnava così la parte superiore del corpo restò femminile mentre dall’inguine in giù apparvero i sei cani. Ancora si può trovare che fu Afrodite, ingelosita dall’amore che per Scilla provava Poseidone, a spingere Circe a realizzare l’orribile trasformazione oppure che ancora si racconta che Scilla, innamorata di Glauco, respinse l’amore di Poseidone che volle mutarla in “colei che dilania”.
Oltre il racconto omerico, Scilla incontra poi il mito di Eracle. La sua morte è infatti attribuita al figlio di Zeus che, al ritorno dalla Spagna coi buoi di Gerone, intraprese con lei un combattimento mortale punendola per i buoi divorati. Forcide, l’avrebbe in seguito restituito la vita con la magia.
In quelle acque però, sulla riva opposta, si nascondeva ancora un altro mostro, il suo nome era Cariddi.
Figlia della Terra e di Poseidone, Cariddi, durante la vita umana si era mostrata di grande voracità. Era una ragazza ghiotta e affamata, che non si curava troppo di ciò che mangiava.
Anche la sua figura è collegata al mito di Eracle perché quando l’eroe passò in Sicilia coi buoi di Gerone, Cariddi ne rubò alcuni capi e li mangiò. Zeus la punì colpendola con un fulmine e facendola precipitare in mare dove divenne “colei che divora”.
Tre volte al giorno, Cariddi ingurgitava una grande quantità di acqua di mare attirando nella sua gola tutto ciò che era in superfice, inghiottendo navi, carichi ed equipaggi per poi rivomitare solo l’acqua assorbita.
Il re di Itaca sfuggì una prima volta al mostro, ma dopo il naufragio che seguì al sacrilegio contro i buoi del Sole, fu trascinato dalla corrente di Cariddi. Nell’Odissea si legge: “L’altro scoglio, più basso tu lo vedrai, Odisseo, vicini uno all’altro, dall’uno potresti colpir l’altro di freccia. Su questo c’è un fico grande, ricco di foglie; e sotto Cariddi gloriosa l’acqua livida assorbe. Tre volte al giorno la vomita e tre la riassorbe paurosamente. Ah, che tu non sia là quando riassorbe”. Ulisse infatti si salvò aggrappandosi ad un fico che cresceva all’entrata della grotta in cui il mostro si nascondeva e riuscì ad aver salva la vita.
Entrambi i mostri servirono agli antichi per spiegare la pericolosità della navigazione nello stretto, specie per le correnti rapide e irregolari.
Il mito di Minosse
Nel racconto del mito di Dedalo si apprende dell’arrivo in Sicilia di Minosse, mitico re di Creta, figlio di Zeus e di Europa, alla testa di un esercito, per ricercare l’inventore che l’aveva suggerendo la scappatoia dal labirinto del Minotauro a Teseo.
Minosse sbarcò presso Agrigento, in una località che prese il nome di Minoa, trovò Dedalo alla corte del re Cocalo a Camico e chiese la sua testa. Cocalo finse di volerglielo consegnare e lo invitò nella sua suntuosa reggia, ma ordì invece un inganno. Invitò Minosse a lavarsi nei bagni reali servito dalle sue figlie e queste, per proteggere l’inventore che tanto lustro stava dando al trono paterno, si avventarono sul corpo di Minosse dandogli la morte.
I cretesi vollero dare regale sepoltura al loro re e costruirono un mausoleo sfarzoso e grande, a due piani, sormontato da un tempio dedicato ad Afrodite.
Da questa leggenda hanno avuto inizio numerose ricerche archeologiche. Qualcuno individua la tomba di Minosse nella montagna di Guastanella, in provincia di Agrigento, altri la collocano sotto la superficie rocciosa della Gurfa, collina nei pressi di Alia, in provincia di Palermo.
Se il mito di Minosse ci parla di un conflitto fra le due civiltà, quella cretese e quella ateniese, con l’ingegno minoico che trova come antagonisti prima Teseo poi Dedalo, la vicenda siciliana introduce altri elementi di riflessione.
Questo mito narrato da Diodoro Siculo sorse forse a seguito dell’intensificarsi degli scambi commerciali minoico-siculi ed è dunque un riflesso dell’irradiamento della civiltà minoica anche in Sicilia. Sotto il nome di Minosse è in effetti personificata la talassocrazia cretese che esercitò il suo dominio sul tutto il Mar Egeo spingendosi anche sulle coste siciliane.
L’aspetto più interessante infatti è quello successivo e conseguente alla morte di Minosse, quando i cretesi mossero guerra contro Camico per vendicarsi della morte del loro re. La cittadella fortificata, progettata da Dedalo, non fu espugnata nonostante cinque anni di assedio ed alla fine i cretesi furono costretti a riprendere il mare. Sulla strada del ritorno, furono travolti da una tempesta che li fece approdare in Puglia dove stabilirono un loro insediamento.
Tra costoro c’era anche Iapige, il figlio di Dedalo, che però non aveva tradito Minosse.
Così nasce il mito della colonizzazione minoica del territorio italico. Dedalo, con suo figlio Iapige, avuto da una donna cretese, nella narrazione di Plinio, sarebbe capostipite degli Iapigi come Minosse, con suo figlio Cleolao, nella narrazione di Solino, sarebbe capostipite dei Dauni, senza contare che Strabone ci informa di una colonia di cretesi giunti a Brindisi da Cnosso proprio con Teseo.
Il mito di Galatea
Figlia di Nereo e di Doride, era una delle cinquanta ninfe del mare e il suo nome greco, Galatea, vuol dire “colei che ha la pelle bianco-latte”, come la spuma del mare.
Il mito la mette sempre in relazione a Polifemo, anche se esistono due differenti versioni.
Nel racconto più noto, è amata dal ciclope dal corpo mostruoso, ma ama però il bel pastore Aci, figlio di Pan e della ninfa Simetide.
Un giorno, il ciclope, preso dalla frenesia di vedere la sua amata, si mise a cercarla nei boschi attorno l’Etna. Polifemo scorse Galatea che riposava in riva al mare sul petto dell’amato. La ninfa, impaurita, si tuffò sott’acqua, nel mare lì vicino ed Aci si diede alla fuga. Polifemo, ingelosito ed accecato dalla rabbia, gli lanciò contro una rocca che schiacciò il pastore.
Come racconta Ovidio nelle Metamorfosi, alla vista del suo amore morto, Galatea scoppiò in un pianto senza fine che destò la compassione degli dei i quali vollero attenuare il tormento della ninfa trasformando Aci in un bellissimo fiume che scende dall’Etna e sfocia nel tratto di spiaggia dove i due solevano incontrarsi.
Nell’opera di Ovidio si legge: «Aci era figlio di Fauno e di una ninfa del Simeto: delizia grande di suo padre e di sua madre, sì, ma ancora più grande delizia mia; e infatti a lui solo mi ero legata. Bello, aveva compiuto sedici anni e un’incerta peluria gli ombreggiava le tenere guance. Io per Aci, per me spasimava il Ciclope, a non fnire. E se tu mi chiedessi cosa prevalesse in me, l’odio per il Ciclope o l’amore per Aci, non saprei dirlo: erano due cose pari… Ed ecco che quell’essere feroce ci sorprese, me ed Aci, ignari, che mai ce lo saremo aspettati, e urlò: “Vi ho colto, e questo, state certi, sarà l’ultimo vostro convegno d’amore!”. E la voce che si mise fu così potente come doveva averla un Ciclope infuriato. A quel clamore l’Etna rabbrividì. Io atterrita mi tuffo in acqua, nel mare lì vicino. Il nipote del Simeto, voltate le spalle, si era dato alla fuga dicendo: “Aiutami, Galatea, ti prego, aiutatemi, genitori miei, e ammettetemi, visto che muoio, nel vostro regno!”. Il Ciclope lo insegue e staccato un pezzo di monte glielo scaglia, e benchè soltanto uno spigolo del masso colpisca Aci, pur quello spigolo schiaccia Aci compltamente… Da sotto il masso filtrava un sangue rosso cupo: in capo a breve tempo, il rosso comincia a impallidire e diventa prima color di fiume intorbidato dalla pioggia, e a poco a poco si depura ancora. Po il macigno si fende e tra le crepe spuntano delle canne fresche ed alte, e la bocca apertasi nella roccia risuona di acqua che spiccia. Fatto prodigioso, all’improvviso si erse, fino a metà ventre, un giovane con due corna tutte nuove inghirlandante di canne, un giovane che, se si toglie che era più grande e aveva il volto tutto celestino, era Aci tale e quale. Ma anche con queste differenze, era Aci davvero, trasformato in dio fluviale; come fiume conservò il nome che aveva prima”».
In onore di Aci, nove centri della orientale riportano il suo nome: Aci Castello, Acitrezza, Acireale, Aci Bonaccorsi, Aci Sant’Antonio, Aci Catena, Aci San Filippo, Aci Platani, Aci Santa Lucia. Sono i luoghi dove Polifemo avrebbe buttato nove parti del corpo di Aci.
Altro mito vuole però Galatea ricambiare l’amore del ciclope. Così i due avrebbero anche avuto dei figli: Gala, Celto e Illirio, eponimi dei Galati, dei Celti e degli Illiri. Questo mito sembra in realtà quasi scritto ad arte, uno strumento di propaganda politica. Si diffuse infatti quando Dioniso, tiranno di Siracusa, conquistò l’Isola d’Elba e spinse le sue navi anche nell’Adriatico. Il racconto servì allora a dimostrare la discendenza siciliana delle genti d’Europa, legittimando l’espansionismo siracusano.
Il mito di Palinuro
La storia di Palinuro è legata al racconto di Virgilio. Di qui egli fece, infatti, passare la nave di Enea, eroe sfuggito alla distruzione della sua natia Troia.
Chiamato dall’imperatore Augusto a celebrare la fondazione dell’impero romano, Virgilio con l’Eneide raccontò il destino di quel punto di difficile navigazione che aveva assunto il nome palinouros, “vento contrario”, al cospetto del quale, sul promontorio, la popolazione che fondò Elea, l’attuale Velia, eresse un villaggio.
Nel libro quinto della sua opera, narra la vicenda del nocchiero della flotta di Enea. Il suo nome era Palinuro.
Quando Venere promise ad Enea un viaggio sereno in cui un sol uomo sarebbe perito per riscattare, col suo sacrificio, tutti gli altri, nessuno poteva supporre che si trattasse proprio di Palinuro. Il marinaio si ritrovò soggiogato dal dio del sonno durante la notte, mentre guidava la nave. Provò in tutti i modi a resistere alla pesantezza degli occhi, si aggrappò al timone, ma precipitò in mare. Nessuno sentì le sue richieste di aiuto, tutti erano rapiti dal sonno.
Al risveglio, Enea lo pianse, eppure l’avrebbe rivisto.
Accadde sulle rive dello Stige, dove il troiano giunse guidato dalla Sibilla di Cuma. Palinuro è tra la folla di morti rimasti senza sepoltura ai quali Caronte rifiutava il passaggio. Enea venne a conoscere la sua storia: Palinuro per tre lunghi giorni e tre notti il naufrago si ritrovò in balia della tempesta, una volta giunto a riva, con il corpo completamente ricoperto di alghe, venne scambiato dagli indigeni per un mostro marino, fu attaccato ed ucciso. Il suo corpo fu lasciato sulla riva esanime.
Allora Enea gli promise, al suo ritorno, di recarsi a Velia per rendergli gli onori funebri. La Sibilla però lo bloccò rivelando che il corpo non potrà più essere ritrovato perché preso da Nettuno, aggiunse poi che quella crudele popolazione conoscerà una pestilenza e, punita, darà il nome di Palinuro a quel posto.
Così nacque Capo Palinuro.
Il mito di Iocasto
Iocasto, figlio del dio dei venti Eolo e di Ciane, figlia del re Liparo, è il mitico fondatore di Reggio Calabria.
La tradizione vuole che la città sia stata fondata da coloni calcidesi cacciati dal loro paese per una carestia. Costoro presero dimora “presso la tomba di Iocasto” e più esattamente in un luogo dove videro “una femmina che stringeva un maschio” cioè una vite abbarbicata a un leccio, come aveva loro indicato un oracolo.
Il mito potrebbe indicare sia l’espansione degli Ausoni nelle Eolie, in Sicilia e nella Penisola, sia quello dei Calcidesi. Probabilmente questa leggenda sorse tra i Calcidesi per legittimare la loro stessa presenza.
Alla morte di Eolo, i suoi figli si divisero i possedimenti paterni. Al primogenito Astioco spettò Lipari, a Feremone andarono le coste siciliane dello Stretto di Messina, ad Androcle il Capo Lilibeo, a Xuto il territorio di Leontini, ad Afatirno andò Capo d’Orlando, a Iocasto toccarono le terre del versante calabrese dello Stretto. Scrive Diodoro Siculo a proposito: “Dicono che egli fosse pio e giusto ed inoltre cortese con gli stranieri; dicono ancora che egli insegnò ai naviganti l’uso delle vele; grazie alla sua lunga osservazione dei presagi offerti dal fuoco, prevedeva i venti locali senza mai sbagliare, per questo il mito lo designò custode dei venti; a causa della sua straordinaria devozione. Eolo fu chiamato amico degli dei. I figli di Eolo furono sei di numero: Astioco, Xuto e Androcle, ancora Feremone, Giocasto e Agatirno; tutti si acquistarono grande rinomanza grazie alla fama del padre e al loro valore. Giocastro, saldamente in possesso dell’Italia, regnò sulla costa fino alla zona di Regio; Feremone ed Androcle dominarono in Sicilia dall’Istmo fino alla zona del Lilibero: i Siceli abitavano la parte orientale di questo territorio, i Sicani quella occidentale. I due popoli erano in discordia fra loro ma obbedivano volentieri ai su menzionati figli di Eolo poichè essi erano miti e poichè la religiosità di Eolo, loro padre, era ovunque nota. Xuto regnò sul territorio che oggi si chiama Agatirnide e fondò uan città che da lui prese nome Agatirno. Astioco esercitò il potere a Lipari. Tutti, giusti e pii come il padre, si acquistarono grande fama. I loro discendenti si trasmisero i regni per molte generazioni ma poi si estinsero i re della stirpe di Eolo”.
Iocasto in Calabria fondò un primo insediamento chiamato Erythrà, che in greco significa ”la Rossa”, su cui poi sorse Rhegion, appunto Reggio, “la città del Re”, che Iocasto eresse a sua dimora.
Il re, morto in quel luogo per il morso di un serpente, fu raffigurato nelle monete dell’antica Reggio nel V secolo a. V. nelle sembianze di un giovinetto seduto con un bastone nella mano destra mentre un serpente si accinge a morderlo.
Della tomba di Iocasto non si hanno tracce, doveva essere un monumentale mausoleo posto sul promontorio di Punta Calamizzi, denominato Pallanzio.
Il mito di Dedalo
Dedalo è l’uomo che per primo realizzò il volo.
Era pronipote di Eretteo, re d’Atene, aveva dunque stirpe regale, ma nella mitologia rappresenta l’artigiano per eccellenza, il creativo, colui che col suo ingegno riesce a far tutto, inventa, realizza, sperimenta. E’ architetto, ingegnere, scultore, scienziato. Tra le sue creazioni ci sono persino le statue animate di cui parla Platone nel Menone, e poi l’invenzione cui dette il suo nome, il labirinto, un groviglio di vie, una costruzione intricata e complessa: un dedalo.
Lavorava ad Atene dove aveva tra i suoi allievi anche il nipote Talo, figlio di sua sorella Perdice.
Talo era abilissmo, estremamente capace ed inventivo e Dedalo ne era geloso, geloso punto tale da ammazzarlo: il giorno in cui Talo, ispirandosi alla mascella di un serpente, inventò la sega, Dedalo lo gettò dall’alto dell’Acropoli. Quando il delitto fu scoperto, Dedalo fu ortato davanti all’Areopago e condannato all’esilio.
Raggiunse Creta dove fu ingaggiato da re Minosse. Sull’isola, la regina Pasifae si era innamorata di un toro inviato da Poseidone e pe lei costruì la vacca di legno in cui si introdusse per potersi accoppiare con l’animale. Qui costruì anche il noto labirinto.
Il re volle rinchiudervi il minotauro frutto dello scandaloso amore di sua moglie.
Anni dopo, Arianna volle salvare Teseo giunto a combattere il mostro. Fu proprio Dedalo a suggerire alla fanciulla l’inganno con cui salvare l’amato, quel gomitolo di filo che avrebbe permesso, srotolato, di poter poi tornare indietro fino all’uscita.
Quando Minosse seppe del successo di Teseo e dello stratagemma impiegato, Dedalo fu imprigionato col figlio Icaro avuto da una serva di palazzo, Naucrate. Per fuggire riuscì a fabbricarsi delle ali che attaccò a se con la cera ma se Dedalo riuscì a giungere in Italia sano e salvo, suo figlio Icaro invece si avvicinò troppo al sole ed il calore fuse la cera, facendolo cadere in mare.
La leggenda vuole che Dedalo, atterrato nel Salento dopo il suo famoso volo, abbia esclamato “Alae Sanae!” in riferimento alle sue ali artificiali ancora intatte, e da questa locuzione deriverebbe il nome della città di Alessano. Virgilio vuole che Dedalo sia giunto anche a Cuma e che proprio lui abbia costruito il tempio della Sibilla consacrandolo a Febo e facendo incidere sui battenti la sua storia. Solo del figlio Icaro manca la storia, perché il padre fu fermato due volte dal troppo dolore nel raffigurare l’evento: bis patriae cecidere manus (“due volte caddero le mani paterne”).
Minosse cercò Dedalo ovunque ma Dedalo giunse a nasconders a Camico, in Sicilia, presso re Cocalo, figlio del ciclope Briareo. Minosse, per cercare di riacciuffare il fuggitivo, escogitò un piano: promise una forte ricompensa a chiunque avesse trovato il modo di far passare un filo tra le volute di una conchiglia. A riuscirvi fu proprio Dedalo, legando un filo ad una formica che, introdotta nella conchiglia i cui bordi aveva cosparso di miele, passò tra gli orifizi per trovare il miele. Minosse allora, saputo che il fuggiasco era presso il re Cocalo, lo raggiunse. Minosse fu ucciso dalle figlie del re e Dedalo restò sull’isola costruendo numerosi edifici in lode del suo ospite.
Per Cacalo realizzò, nei dintorni di Agrigento, una inespugnabile città, oggi identificata con Sant’Angelo di Muxaro. Gli si attribuisce anche la costruzione di una grotta artificiale presso Selinunte e sfruttando il calore sulfureo delle acque svaporanti di quei fumi diede origine alle Terme di Sciacca. Ad Erice invece eresse un tempo dedicato a Venere cui dedicò un ariete d’oro.
Il mito di Aretusa
Anche l’origine della fonte Aretusa, a Siracusa, è legata alla mitologia.
Si vuole che l’esistenza della fonte in Sicilia fosse nota all’oracolo di Delfi ancor prima della spedizione dei coloni corinzi, infatti Pausania narra che Archia, interrogato l’oracolo, si sentì rispondere: “Un’isola, Ortigia giace / sull’oceano nebbioso di contro / a Trinacria, dove la bocca di Alfeo / gorgoglia mescolandosi con le fonti / della vasta Aretusa”.
Alfeo, dio del fiume che con questo nome scorre nel Peloponneso, è il protagonista del tentativo di sedurre Aretusa, una delle naiadi al seguito di Artemide.
Tali figure mitologiche sono le ninfe delle fonti. Ogni sorgente ne aveva una, così Aretusa era la ninfa d’Acaia. Figlia della divinità marina Nereo e della ninfa oceanina Doride, Aretusa era protetta da Artemide e dunque votata alla verginità.
Come raccontato nelle Metamorfosi di Ovidio, un giorno, Aretusa, al termine di una battuta di caccia, si denudò e si bagnò nelle acque di Alfeo. Fu così che il dio fiume se ne invaghì. Parlò alla giovane ed, apparendole in sembianze umane, prese a corteggiarla, ma Aretusa, spaventata, abbandonò le acque precipitosamente invocando la protezione di Artemide.
La dea la celò alle pericolose attenzioni dello spasimante circondandola in una nuvola e poi trasformandola in una fonte sotterranea. Lasciò che la terra la inghiottisse per evitare che Alfeo potesse ritrovarla ed unirsi a lei mescolandosi alle sue acque.
Guidata dalla sua protettrice, Aretusa percorse vie sotterranee che la portarono lontano dal Peloponneso, oltre il Mar Ionio, in Sicilia, nell’isola di Ortigia, l’atollo posto nel mezzo del porto di Siracusa. Zeus però, impietosito dalla disperazione del povero Alfeo innamorato, permise che le acque del fiume percorressero sotterranee tutto il mare in modo da unirsi all’amata fonte.
Si legge nelle Metamorfosi di Ovidio: «”La benefica Cerere, tranquillizzata per aver riottenuto la figlia, vuole ora sapere perchè tu sia partita dall’Elide, o Aretusa, perchè tu sia una fonte sacra. Tacciono le acque, e dai loro gorghi profondi Aretusa trae fuori il capo, e strizzatisi con la mano i verdi capelli racconta dell’antico amore del fiume Alfeo: ‘Io ero una delle ninfe che stanno nell’Acaia, – dice, – e nessun’altra con più passione di me percorreva le forre, nessun’altra con più passione di me tendeva le reti. Ma sebbene non avessi mai aspirato ad avere la fama d’essere bella, sebbene fossi rude, avevo fama d’essere bella. Malgrado tante lodi, il mio aspetto non m’inorgogliva, e mentre le altre di solito ne godono, io, semplice e scontrosa, arrossivo delle mie doti fisiche, e, se piacevo, mi pareva una colpa. Stanca ritornavo, ricordo, dalla foresta di Stinfàlo. C’era afa, e il peso dell’afa era raddoppiato dalla fatica. Capitai ad un fiume senza vortice, che se ne andava senza un mormorio, trasparente fino al fondo, tanto che attraverso l’acqua si poteva contare ogni sassolino, tanto che a stento avresti creduto che scorresse. Pallidi salici e pioppi nutriti dall’acqua davano alle rive in declivio un naturale riparo di ombre. Mi accostai, e dapprima mi bagnai la pianta del piede, poi la caviglia, e non contenta di questo mi spogliai e appesi i molli veli a un ramo pendente di salice, e m’immersi nell’acqua, nuda. Mentre battevo e traevo a me l’acqua guizzando in mill modi, levando e rituffando le braccia, sentii venire da sotto i gorghi uno strano bisbiglio, e atterrita risalii sul bordo della riva più vicina. – Dove vai così in fretta, Aretusa? – e, ancora – Dove vai così in fretta? – , mi aveva detto, con voce roca, l’Alfeo dalle sue acque. Fuggii così com’ero, senza vesti: le vesti erano rimaste sull’altra sponda. Tanto di più lui m’incalzava e s’infiammava, e poichè ero nuda, gli sembravo più pronta. Così io correvo, così lui m’inseguiva spietato, come le colombe fuggono con le ali trepidanti davanti allo sparviero, e come lo sparviero si avventa contro le trepidanti colombe. Fino alle porte di Orcomeno, fino a Psofide e al Cillene e ai dirupi del Menalo e al gelido Erimanto e ad Elide riuscii a correre; e lui non mi raggiungeva. Ma correre più a lungo, io, meno resistente, non potevo, e lui reggeva a una lunga fatica. E tuttavia corsi per campi, per monti coperti di alberi, e anche per rocce e rupi, per dove una via non c’era. Avevo il sole alle spalle: davanti ai piedi, vidi un’ombra allungarsi e precedermi, a meno che non fosse la mia paura a vederla, ma è certo che il rumore dei passi mi atterriva e sulla benda che mi teneva i capelli arrivava il soffio potente del suo respiro affannoso. Sfinita dalla fatica: – Aiuto, mi prende! – dico. – Aiuta, Diana Dictinna, la tua scudiera, da te incaricata tante volte di portarti l’arco e le frecce rinchiuse nella faretra -. La dea si commosse, e stacata una nube da uno spesso banco di nubi, la gettò su di me. La foschia mi nasconde e Alfeo scruta di qua e di là e non riesce a capacitarsi e mi cerca intorno alla nuvola cava, e due volte gira ignaro intorno al punto dove la dea mi ha nascosto, e due volte chiama – Aretusa! Aretusa! – In che stato d’animo ero io, poverina? Non forse in quello di un’agnella se per caso sente dei lupi ringhiare intorno all’alto ovile, o di una lepre che appiattita in un cespuglio vede i musi ostili dei cani e non osa fare il minimo movimento? E tuttavia lui non se ne va, e infatti più in là non vede nessuna orma di piedi: sorveglia la nuvola e il posto. Un sudore freddo, trovandomi così assediata, mi pervade le membra, da tutto il corpo mi cadono gocce azzurrine, e se sposto un po’ il piede, si forma una pozza, dai capelli cola una rugiada, e in meno di quanto non impieghi ora a raccontartelo, mi muto in acqua. Ma allora il fiume riconosce nell’acqua l’amata, e lasciato l’aspetto umano che aveva preso, torna a essere quello che è, una corrente, per mescolarsi a me. La dea di Delo fece uno squarcio nel terreno, e io sprofondando in buie caverne arrivo fino ad Ortigia, che mi è cara perchè deve il suo nome alla mia dea, e qui per la prima volta rispunto fuori all’aria, da sottoterra’».
Questo mito, cantato in più versioni, si costruisce sul classico inseguimento amoroso che evolve in metamorfosi ed alcune fonti raccontano pure che qualsiasi cosa si gettasse nell’Alfeo in Grecia, comparisse dopo poco nelle acque della fonte Aretusa.
Il mito di Leucosia
Leucosia è una delle sirene omeriche più note della mitologia italica.
E’ una delle tre sirene incontrate da Ulisse nell’Odissea ed a lei si deve il nome di un’isola situata di fronte al golfo di Paestum ma anche quelli del promontorio di Punta Licosa, e della cittadina di Licosa, nel Salernitano. Tutti luoghi in cui è ambientato il suo mito.
Le sirene, con la dolcezza del loro canto ammaliavano i naviganti che costeggiavano, i naviganti perdevano il controllo delle navi e facevano naufragio, finendo per essere divorati.
Leucosia, “quella che ha candide membra”, cercò di attirare Ulisse ed i suoi compagni verso gli scogli, usando il suo dolce canto. Fallì. Ulisse infatti turò le sue orecchie con della cera e volle che lo stesso facessero i suoi compagni in modo che nessuno subisse il fascino ammaliante di quel canto. Attraversarono le acque indenni suscitando l’irritazione delle belle sirene.
Così Leucosia, arrabbiata per non essere riuscita a sedurre con la sua voce l’equipaggio di Ulisse, decise di gettarsi da un’alta rupe.
Punta Licosa è il luogo da cui si lanciò; il suo corpo avrebbe fatto nascere lo scoglio, che esiste ancora oggi, l’isola di Licosia, mentre la cittadina di Licosa sarebbe il luogo in cui il mare trascinò il suo corpo.
Il mito di Ciane
Il nome Ciane è legato a tre diversi racconti della mitologia ellenica in Italia e Sicilia.
Ciane è figlia di Liparo, re degli Ausoni e figlio del re Ausone, dunque discendente di Ulisse. Spodestato dai fratelli, Liparo si rifugiò nelle isole cui dette il nome, le isole Lipari. Sulla maggiore delle isole, il re fondò una fiorente colonia, mentre le altre isole vennero usate per l’agricoltura. Quando Eolo si presentò lì, gli concesse la mano di Ciane ed in cambio il re dei venti si prodigò per permettere a Liparo di raggiungere il continente, di cui aveva nostalgia. Così Liparo giunse nella zona di Sorrento, dove divenne re di una popolazione locale. Dall’unione tra Ciane ed Eolo nacque, tra l’altro, Iocasto, il mitico fondatore della città di Reggio Calabria. Il mito presenterebbe la prima colonizzazione delle isole avvenuta con gli Ausoni capeggiati da Liparo ai quali si sarebbero poi uniti i greci calcidesi condotti da Eolo. Questa prima fase di popolamento fu seguita dall’arrivo dei dori da Rodi e Cnido, superstiti dell’impresa siciliana di Pentatlo del 580 a.C.
Ciane era anche una ninfa di Siracusa che provò ad opporsi al rapimento di Persefone da parte di Ade. Ciane si aggrappò al cocchio di Ade nel tentativo disperato di trattenerlo. Il dio degli inferi, adirato, la trasformò in uno stagno di colore blu. Scrive infatti Ovidio nelle Metamorforsi: «”C’è, tra la fonte Cìane e la fonte Aretusa che viene dall’Elide, un tratto di mare che sta raccolto e racchiuso tra due strette lingue di terra. Qui appunto – viveva – e da lei prese il nome anche quella laguna – Cìane, famosissima tra le ninfe di Sicilia. Dal centro dei gorghi essa emerse fino alla vita, riconobbe la fanciulla divina e disse: ‘Non passerete! Non puoi diventare genero di Cerere se Cerere non acconsente. Chiedere la dovevi, e non rapire. E se posso pargonare alle cose grandi le piccole, anch’io sono stata amata, da Anapi, ma mi sono sposata dopo essere stata pregata, e non, come costei, terrorizzata”. Così disse, e allargando le braccia cercò di fermarli. Il figlio di Saturno non trattenne più la rabbia, e incitti terribili cavalli, con braccio vigoroso tuffò lo scettro regale fino in fondo alla laguna. A quel colpo un varco si aprì nella terra fino al Tartaro e il cocchio sprofondò e scomparve nella voragine. Quanto a Cìane, addolorata per il rapimento della dea e perchè la sua fonte era stata disprezzata e violata, si portò in silenzio dentro di sé una ferita di cui nessuno poteva consolarla: si strusse tutta in lacrime e si dissolse in quelle acque delle quali fino a poco prima era stata grande divinità. Avresti visto le sue membra ammollirsi, le ossa flettersi, le unghie perdere durezza; e prima di tutto si liquefecero le parti più fini: i capelli azzurri, le dita, i piedi e le gambe. Più facile è infatti, per le parti sottili, trapassare in gelida acqua. Poi furono le spalle, il dorso, i fianchi, il petto ad andarsene, fino a svanire, in esili rivoli. Infine l’acqua subentrò al sangue vivo nelle vene in disfacimento, e non riamse più nulla che si potesse afferrare». Il giovane Anapo, innamorato della ninfa supplicò gli dei d’essere a sua volta trasformato in fiume per unirsi all’amata, così oggi l’Anapo, al termine del suo percorso, si unisce nelle acque al Ciane.
Come il primo mito, anche questo secondo è ricavato anche dal racconto di Diodoro Siculo. Lo storico siceliota, parlando del viaggio di Eracle in Sicilia, dice che l’eroe pose uno dei suoi tori, nella fonte di Ciane a Siracusa per sacrificarlo a Persefone, ordinando agli abitanti di compiere lo stesso sacrificio ogni anno in onore di Persefone e Ciane.
Plutarco racconta però un terzo mito. Ciane è in questo caso una giovane siracusana che fu violentata dal padre, Cianippo, di notte, in uno stato di ubriachezza. Cianippo aveva fatto dei sacrifici a tutti gli dei eccetto che a Bacco, e questo dio per punirlo lo fece ubriacare. Il padre sperò di non essere riconosciuto ma la figlia gli sottrasse l’anello durante la violenza e di giorno potè indivudare chi fosse lo stupratore. Erano giorni in cui sulla città si era abbattuta la peste e l’oracolo asserì che per placarla occorreva un sacrificio umano. Ciane quindi afferrò per i capelli il padre e lo uccise con un pugnale, per poi suicidarsi essa stessa. Proserpina commossa raccolse le lacrime della giovane Ciane e creò l’omonima fonte.
Autore articolo: Angelo D’Ambra