Napoli capitale del regno angioino
Appena due anni dopo la battaglia di Benevento, Napoli era la sede del re e la capitale riconosciuta del regno. Vi si indisse il parlamento generale in cui tutti i signori riconobbero Carlo d’Angiò sovrano e da Napoli si avviò, con l’aiuto di Gezolino di Marra, la riorganizzazione dell’amministrazione regnicola. In questa città fu condotto e giustiziato Corradino di Svevia, dopo i fatti di Tagliacozzo. Non fu un caso: la capitale doveva fornire il più efficace monito sulla sorte spettante ai ribelli.
In effetti, quando Carlo d’Angiò sconfisse Manfredi nel 1266, si diresse senza esitazione verso Napoli. Perché? Quali furono le sue motivazioni? Sicuramente la città era stata il principale centro anti-svevo del Meridione d’Italia.
Insofferente ad un regime accentratore, Napoli era depositaria di una tradizione di libertà risalente al periodo ducale che non fu mai estirpata, tuttavia nobiltà e commercianti capivano bene che l’inserimento della città nella vita del regno offriva grandi vantaggi, la possibilità di accedere a cariche pubbliche, di divenire funzionari regi, di proiettare i propri commerci nelle varie parti dello stato. Così innumerevoli personalità della città furono al servizio di Federico II come Riccardo e Giordano Filangieri, Marino e Corrado Capece, Bartolomeo Caracciolo, Matteo Runcella, Mario Rapistro. Vittima del fascino della regalità e delle forme di vita della splendida corte, era sorto, nonostante tutto, anche a Napoli un partito federiciano, piuttosto radicato. Non bastò, però, a tenere la città fedele all’imperatore. Finché i napoletani si ritrovavano retti dalle loro consuetudini elaborate nel corso dei secoli, trovarono vantaggioso collaborare con l’Imperatore, poi le cose cambiarono.
Quando il processo di accentramento politico si accelerò, a partire dal 1231 con le Constitutiones di Melfi, inesorabilmente si assiste ad un graduale dissociarsi della città da Federico II. Con l’applicazione delle norme di Melfi, cessava ogni parvenza di libertà in favore di un rigore opprimente. I nuovi funzionari regi, continuamente controllati dagli organi centrali, erano severamente redarguiti e puniti per ogni eventuale parzialità, clemenza e favoritismo sia nei confronti di piccoli che di grandi sudditi. Le frequenti collette necessarie per le guerre perenni di Federico, inasprirono gli animi, l’esosità del fisco raggiunse vette mai conosciute. Intollerabile poi si accese, nel contesto di guerra, un clima di sospetto e di minaccia. Tutto ciò col passare
degli anni si trasformò in un soffocante burocratismo e fioccarono le accuse e le condanne di tradimento.
Così Napoli si trasformò nella più salda testa di ponte della Curia romana nel regno di Sicilia. Il rigore di
Federico contro i frati minori e predicatori, gli attacchi al clero ed all’arcivescovo, saldarono l’alleanza tra nobiltà, borghesia, popolo e chiesa. Quando si diffuse la notizia che l’Imperatore era morto a Ferentino di Capitanata, nel dicembre 1250, i napoletani insorsero.
Napoli fu l’anima della resistenza alle truppe di Manfredi in Terra di Lavoro. Invano, Manfredi tentò di assediarla e poi di indurla a combattere con le sue truppe in campo aperto. Fu costretto a ritirarsi da quei luoghi senza aver ottenuto nulla. Papa Innocenzo IV ne assunse il governo de facto, poi con una serie di bolle, affidandola a Riccardo Filangieri come podestà. E così resistette alle truppe di Corrado IV, circondata per mare e per terra. Nonostante scavò decine di gallerie sotterranee ed usò macchine belliche, neppure lo Svevo riuscì a prenderla. I napoletani dovettero arrendersi per fame, il 10 ottobre 1253, quando venne meno ogni speranza di aiuto da parte della Chiesa. Corrado, che nel parlamento di Foggia dell’anno precedente aveva trasferito l’Università da Napoli a Salerno per punire la rivolta, fece distruggere le mura cittadine, tuttavia, quando morì, nel maggio successivo, le ostilità tornarono alla luce del sole.
L’ostilità contro Manfredi fu sempre alta. In città trovarono rifugio Pietro Ruffo, dopo il primo tentativo di sollevare la Calabria, e qui si organizzò l’esercito del cardinale Ottaviano degli Ubaldini. Manfredi si sentì sempre in pericolo a Napoli, ne avvertì sempre timore, al punto che non vi mise piede neppure nel 1262: preferì alloggiare fuori dalle mura, quando sua figlia fu consegnata ai messaggeri di Pietro d’Aragona, suo sposo.
L’ascesa di Carlo d’Angiò fu anche l’ascesa di Napoli. Non si sa se il francese avesse già deciso di porre qui la sua corte. Sicuramente già nutriva dei propositi mediterranei, sicuramente le sue ambizioni travalicavano i confini del regno di Sicilia e così favorì Napoli rispetto a Palermo. Si avvide che la città campana era più vicina a Roma, più vicina a Marsiglia. Da lì avrebbe controllato più facilmente tutto il Mediterraneo occidentale, lì poteva raccogliere più rapidamente rinforzi dalla Francia e da lì navi di armigeri e derrate potevano salpare per i porti di Sicilia e Puglia. Sia che mirasse all’occupazione di Tunisi, sia che puntasse alle sponde balcaniche dell’Adriatico, sia che pensasse ad una crociata, Carlo D’Angiò s’accorse che Napoli serbava una posizione assai più vantaggiosa delle città siciliane.
Oltre ad essere collegata con le zone più lontane della parte continentale del regno e con Roma da una rete di strade, per quei tempi, abbastanza curata, Napoli era assurta al ruolo di principale piazza del Mezzogiorno, il luogo in cui confluivano caoticamente una gran quantità di uomini, merci e derrate, non solo da Pisa e dalle altre città d’Italia, ma anche dalla Spagna e dagli stessi porti di Sicilia, poiché la flotta sveva assicurava la navigabilità del
mar Tirreno e la rotta restava la più breve e la più economica. Queste ragioni erano state evidenti anche a Federico II che aveva, non a caso, posto la Regia Camera nel Castel dell’Ovo e non a Palermo, aveva avviato lavori per ampliare la darsena e incrementare le costruzioni navali, aveva pure istituito l’università.
Autore articolo: Angelo D’Ambra
Bibliografia: M. Fuiano, Napoli nel medioevo