Garibaldi e l’ultima difesa della Repubblica Romana
La Repubblica Romana era isolata in un’Italia in cui si andava ristabilendo l’assetto prequarantottesco. L’ultimo atto della sua difesa si consumò nel giugno.
Roma non era una città fortificata nel senso proprio del termine. Era circondata da un’antica cinta muraria e vi si poteva accedere attraverso otto porte. A delimitare la città c’erano da un lato il Tevere coi suoi ponti e dall’altro il Quirinale ed il Campidoglio. Piazza San Pietro, dove era il quartier generale dei difensori, era lontana dal centro, oltre il Tevere, in una zona dominata dal colle Vaticano e dal Gianicolo, uno dei punti critici delle difese perché, in mano al nemico, gli avrebbe permesso di dominare la città e minacciarla con l’artiglieria. I francesi, non a caso, attaccarono qui, spezzando ogni loro ambiguità.
La notte del 2 presero Villa Pamphili sorprendendo i romani e respingendo ogni contrattacco. Garibaldi mobilitò la Legione per andare in soccorso agli uomini generosi che si stavano facendo lì trucidare. All’alba del 3, reparti repubblicani avanzarono sotto il fuoco dei difensori, riuscendo a prendere temporaneamente la villa, ma tutta la giornata fu un continuo susseguirsi di progressi e ripiegamenti. Garibaldi parve impassibile, senza timori, coraggiosamente era sempre a dirigere le operazioni dove il fuoco era più micidiale. Non si sottrasse al pericolo, ma all’incalzare dei francesi faceva seguito l’attacco dei volontari e tutto tornava come un nulla di fatto. Ogni sacrificio si concentrò su Villa Corsini, i volontari si mossero come un fiume in piena, prendendola. Garibaldi chiese forze fresche per soccorrere Giacomo Medici a Villa del Vascello, ma nel frattempo tornarono in forza i francesi e si accese una violenta mischia in cui si gettarono a capofitto il battaglione universitario, i finanzieri, gli emigrati, il generale stesso, mentre i bersaglieri di Manara sono bloccati per ordine di Roselli. Aumentano i feriti, aumenta il via vai di barelle, aumenta il sangue e solo alle nove, fanfara in testa, arrivano i bersaglieri. Non basta, a sera il nemico era ancora padrone delle postazioni. I morti erano mille e tra essi Francesco Daverio, Enrico Dandolo ed Angelo Masina. Bixio fu ferito, come pure Goffredo Mameli che morì un mese dopo per la cancrena. Il 4 iniziò il vero e proprio assedio.
Il nemico occupò varie postazioni, danneggiò gli acquedotti, lanciò bombe. Preferì non inoltrarsi nelle vie per non restar prigioniero di eventuali barricate e concentrò i suoi sforzi al Gianicolo, da Porta San Pancrazio a Porta Portese. I difensori all’esterno della cinta tenevano Villa del Vascello e Casa Giacometti, collegate alla porta con le trincee. Garibaldi già sapeva che, perduta Villa Corsini, Roma era destinata a cadere.
La notte del 21 una spallata dei francesi sfondò le linee. Garibaldi restò fermo, Mazzini sollecitò un contrattacco, ma ciò non avvenne. Il generale non voleva sprecare inutilmente vite per un manovra azzardata e confusa e progettò, invece, d’uscire contro le retrovie nemiche e allontanare una parte di francesi dall’assedio, ma Roselli bocciò l’idea. per sette notti e sette giorni i francesi concentrarono il fuoco di trenta cannoni sui bastioni repubblicani, sgretolandoli e aprendosi una breccia, mentre seimila donne accorrevano a prendersi cura dei feriti. Alle due di notte del 29 i francesi avanzarono, Garibaldi resistette ancora riprendendo le posizioni perdute alla baionetta, ma ormai c’era poco da fare. Ordinò ai valorosi trecento di Giacomo Medici, che erano a Villa del Vascello, di ripiegare su Porta San Pancrazio. Alle due e mezzo del mattino del 30, Oudinot ordinò l’assalto finale. Garibaldi continuò ostinatamente a combattere, caddero il diciottenne Emilio Morosini e Lucio Manara. A mezzogiorno si stipulò una tregua per raccogliere morti e feriti.
L’indomani Mazzini convocò tutti. Garibaldi non c’era ma sostenne l’idea di uscire dalla città per suscitare la guerra tra l’Umbria, le Marche e le Romagne. Lo fece anche quando fu chiamato d’urgenza e si presentò sporco di polvere e sangue, con la camicia a brandelli e la sciabola storta. Il Campidoglio l’applaudì, ma le sue parole furono amare: “La difesa oltre il Tevere… impossibile: possibile ancora al di qua del fiume la guerra di barricate, ma a patto che tutta la popolazione si ritiri e si interni nella città… Ma anche questo non può durare che pochi giorni… Solo la dittatura di un uomo energico… poteva salvare Roma… Io la proposi fin dal febbraio… Non fui ascoltato… Quanto a me, non resta che uscire di Roma con i miei prodi e tenere alta la bandiera della patria fino all’estremo”. Sì, aveva chiesto a Mazzini di lasciare il posto alla dittatura sin dal 2 giugno intenzionato ad assumersi da solo e in pieno la responsabilità di quella guerra, anche contro le querimonie di Roselli e l’idealismo di Mazzini. L’Assemblea quel giorno votò: “In nome di Dio e del Popolo, l’Assemblea Costituente Romana cessa una difesa divenuta impossibile e sta al suo posto”.
Autore articolo: Angelo D’Ambra
Bibliografia: A. Pratta, Garibaldi; A. Scirocco, Giuseppe Garibaldi