Gli italiani non combatteranno
Il 24 aprile 1849 giunse a Roma da Marsiglia una spedizione francese forte di diecimila uomini, sedici pezzi d’artiglieria da campagna, sei d’assedio, dieci navi. La guidava il generale Oudinot. L’inviato francese, il colonnello Leblanc, incontrò subito Mazzini, Aurelio Saffi e Carlo Armellini, il Triumvirato voluto dall’Assemblea Costituente, e comunicò loro apertamente il loro scopo: la restaurazione papale. Leblanc disse a Mazzini: “Les Italiens ne se battent pas” cioè “Gli italiani non combatteranno”. E invece…
Il nemico, diviso in due brigate, quelle dei generali Moliere e Lavaillant, marciò su Roma il 30 di quel mese, con un piano semplice: con una colonna doveva assalire Porta Cavalleggeri e con l’altra Porta Angelica per poi ricongiungersi nella Piazza di San Pietro. La sua certezza era la convinzione che gli italiani non si sarebbero battuti. Tanta era guastata l’immagine del nostro popolo, tanto vituperate le sue qualità, che la Francia riteneva impossibile che la Repubblica Romana fosse difesa valorosamente. Sentendo le campane, i francesi pensarono che il popolo li stesse accogliendo in festa, poi le loro fila furono sconvolte da colpi sparati dalla batteria di Santa Marta, sulle mura gianicolensi e iniziarono a capire che il loro giudizio sugli italiani era errato.
Il Triumvirato aveva decretato di respingere la forza con la forza nonostante l’esercito francese fosse tra i primi al mondo per preparazione ed esperienza sul campo. I francesi tentarono di scalare le mura di Porta Angelica ma furono respinti. A Porta Cavalleggeri il fuoco dei difensori fu arcigno. Garibaldi guidò i repubblicani per cogliere alle spalle i reparti nemici qui ammassati. Comandò la Prima Brigata, la Legione, un battaglione di reduci, un battaglione “tiragliatori” universitari, un battaglione finanzieri ed una legione di emigrati, in tutto duemilasettecento uomini. Alle loro spalle avevano le mura Aureliane e il Gianicolo, di fronte Villa Corsini, detta Casino de’ Quattro Venti, il Convento di San Pancrazio e, più giù, Villa Pamphili, alla cui sinistra era Villa Giraud detta Villa del Vascello. Erano armati alla meno peggio, con munizioni e spade fabbricate durante la notte da stagnari e squadre di donne.
Villa Pamphili era difesa dagli universitari e quando questi cedettero, Garibaldi raccolse la sua Legione e la guidò in un assalto alla baionetta che travolse il nemico, prendendo Villa Corsini, poi la Pamphili. La battaglia fu feroce, senza esclusione di colpi. Settanta proiettili caddero sulla Basilica di San Pietro, una granata colpì le logge di Raffaello, quattro il tetto della Cappella Sistina. Rimpolpò gli italiani la Seconda Brigata del colonnello Bartolomeo Galletti. Si vide Garibaldi col suo cavallo bianco e il poncho, portarsi alla testa delle truppe e guidarle a rompere la linea del nemico. Cadde Alessandro Montaldi, il capitano della Legione, colpito in petto e poi trafitto da diciannove colpi di baionetta. Bixio lottò fino a spezzare la sua sciabola, fece prigioniero il maggiore Picard trascinandolo per i capelli. Tra chi combatté ci fu anche il sacerdote Ugo Bassi che fu fatto prigioniero. Villa Pamphili finì presa d’assalto, tutta la linea francese si ruppe in precipitosa ritirata verso Castel di Guido. C’era anche Goffredo Mameli, il quale scrisse alla madre: “Dopo molti anni, questo è il primo giorno di gloria per l’Italia”.
I francesi persero trecento morti e contarono centocinquanta feriti. Dei loro, ben trecentosessantacinque furon fatti prigionieri. Gli italiani contarono nel complesso duecento tra morti e feriti e solo Bassi come prigioniero. La vittoria era stata incredibile, inaspettata. I francesi ne restarono storditi. L’entusiasmo dei repubblicani fu alle stelle. Si sarebbe pure potuto fare di più. Garibaldi voleva inseguire il nemico e sbaragliarlo, ma fu fermato, probabilmente da Mazzini che sperava ancora che la Francia si comportasse da “sorella”, da repubblica, nonostante avesse subito una svolta autoritaria con l’ascesa al potere di Luigi Napoleone.
Quella notte, mentre la città era illuminata e la popolazione in festa, il chirurgo Ripari raggiunse l’alloggio di Garibaldi. Una palla di fucile l’aveva ferito all’addome e non l’aveva detto a nessuno per non creare panico.
Autore articolo: Angelo D’Ambra
Bibliografia: A. Pratta, Garibaldi; A. Scirocco, Giuseppe Garibaldi