Prodigi e Libri Sibillini

Una vacca prese a parlare e dal cielo piovve carne. Quando Publio Volumnio Amintino Gallo e Servio Sulpicio Camerino Cornuto furono eletti consoli, era il 461 a.C. e Roma era sconvolta da divisioni politiche e minacce di guerra e gli occhi dei romani erano pronti ad accogliere segni per orientarsi in una realtà in disordine. Prodigi del genere imposero spesso, nella storia di Roma, il bisogno di ricorrere ai Libri Sibillini.

«Particolarmente straordinari furono i prodigi che si verificarono durante il consolato di Caio Volumnio e Servio Sulpicio nella fase iniziale delle guerre: una vacca passò dal muggito al linguaggio umano ed atterrì quelli che la udirono, sconvolti da un fatto tanto inconsueto. Caddero poi dal cielo, a mo’ di pioggia, pezzi di carne, la maggior parte dei quali fu ghermita dagli uccelli in volo, mentre il resto rimase a terra per alcuni giorni senza puzzare e senza marcire». Lo scrive Valerio Massimo in Facta et dicta memorabilia I, 6, 5, rivelandoci la grande attenzione che i romani investivano nella decifrazione di presunti segni d’origine divina, fatti inconsueti e incredibili, avvenimenti incerti e fuori dall’ordinario.

«Nel corso di un altro preparativo di guerra di credette di vedere altri prodigi dello stesso tipo: un neonato di sette mesi nel Foro Boario si mise a gridare “Trionfo!”, un altro nacque con una testa da elefante, nel Piceno ci fu una pioggia di sassi, in Gallia un lupo tolse a una sentinella la spada dal fodero, in Sardegna due scudi sudarono sangue, ad Anzio caddero nella cesta dei mietitori spighe insanguinate, a Cere le acque scorrevano mescolate a sangue…». Eventi come questi certamente provocavano apprensione, colpivano l’immaginario e terrificavano una mentalità in cui tra cielo e terra c’era un equilibrio labile che mai andava rotto e che invece, proprio quegli arcani prodigi, dimostravano essere in frantumi.

Eventi così spaventosi potevano anche suggerire che lo Stato corresse un grave pericolo o che una catastrofe fosse imminente. Così, quando veniva riconosciuta una circostanza di estrema gravità, il Senato poteva ricorrere alla consultazione dei Libri Sibillini, tre potenti raccolte di vaticini e visioni sapienziali, di origine misterica. Della loro provenienza, infatti, Aulo Gellio, in Noctes Atticae I, 79, parlò in termini oscuri: «Una vecchia straniera e sconosciuta si recò da re Tarquinio il Superbo portando con se nove libri contenenti degli oracoli divini; voleva venderli e Tarquinio chiese il prezzo. La donna ne pretese uno esorbitante e il re, come se stesse parlando con una rimbambita dall’età, la derise. Ella allora s’affrettò a bruciare davanti a lui tre dei nove libri e chiese poi a Tarquinio se volesse comprare i sei rimanenti al medesimo prezzo. Ancora il re rise e disse che la vecchia stava delirando. La donna allora, su due piedi, bruciò altri tre libri e senza scomporsi richiese la stessa cifra per quelli rimanenti. A questo punto Tarquinio divenne serio e più attento, si rese conto che quella fermezza e quella sicurezza non erano da sottovalutare, acquistò i tre libri rimasti a un prezzo non minore di quello richiesto per tutti e nove, poi la donna scomparve senza mai esser più vista. I tre libri, custoditi in luogo sacro, furono chiamati Sibillini. Ad essi, come ad un oracolo, si rivolgono i quindecemviri quando si devono consultare gli dei immortali a nome dello Stato».

I quindecemviri erano succeduti ai duumviri sacrorum – assistiti forse da due interpreti greci perché eran costituiti in parte da geroglifici e in parte da versi scritti in quella lingua su foglie di palma -, nel delicato compito di custodire e consultare i misteriosi libri donati ai romani da quella che, secondo Virgilio, era la sacerdotessa di Apollo, la Sibilla Cumana. Solo loro ebbero accesso al sotterraneo del Tempio di Giove Capitolino dove venivano conservati dentro un’arca di pietra. Anche grazie ad essi era possibile interpretare i prodigi, ma le modalità per stornare i pericoli annunciati spettava agli auguri e agli aruspici che costituivano due collegi sacerdotali ad hoc.

Nelle occasioni in cui si riteneva che gli dei manifestassero la loro collera con calamità e che a placarla non potesse bastare l’opera e la sapienza degli umani, si ricorreva ai libri. Si sa che furono consultati, sotto Tiberio, per rimediare all’inondazione del Tevere e, sotto Nerone, per guardare il futuro dopo l’incendio di Roma. Lo riferisce tacito, mentre Giulio Capitolino ci fa sapere che si consultarono, sotto Gordiano, dopo un terremoto, e Flavio Vopisco riporta la lettera con la quale Aureliano ordinava la consultazione dei testi per fronteggiare i marcomanni. Furono pure consultati per porre termine alla pestilenza del 293 a.C., quando suggerirono di portare a Roma, da Epidauro, il dio Asclepio. Giuliano Apostata li consultò prima di intraprendere la sua spedizione contro la Persia, secondo quanto scrive Ammiano Marcellino.

Nell’incendio del Campidoglio dell’83 a.C. i libri andaron bruciati. Ricostruiti, furono gli unici testi profetici consultati a Roma perché Ottaviano Augusto volle distruggere tutti gli altri, giudicandoli privi d’autorità. Bruciati e ricostruiti ancora sotto Nerone, scomparvero definitivamente per volere di Stilicone, agli albori dell’era cristiana.

 

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

Fonte foto: dalla rete

 

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