La Destra Storica

Lo storico Fernando Manzotti, in I partiti politici italiani dal 1861 al 1918, contenuto nel II volume di Nuove questioni di storia del Risorgimento e dell’Unità d’Italia, del 1961, analizza la composizione sociale e le politiche di una Destra Storica che, dopo aver colmato il disavanzo del bilancio, si chiuse in un atteggiamento autoritario, probabilmente impaurita dalla Comune, finendo col collassare davanti all’avanzata elettorale della Sinistra.

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Cos’era e cosa voleva la Destra? Era nata dal superamento del guelfismo e delle posizioni moderate tradizionali e dall’assunzione di quella parte di forze democratiche che si erano rese conto come il motivo concreto non aveva potuto essere se non quello dell’unità politica. In essa erano confluite componenti fondamentali e solo apparentemente contraddittorie fra loro: la tradizione piemontese, lo storicismo e le elaborazioni di giuristi nell’Italia meridionale, l’amministrazione lombarda, la cultura e il senso unitario di talune spiccate personalità, particolarmente dell’Emilia e della Toscana. La sua maggiore forza stava in una concezione dello “Stato secondo il diritto” e nella identificazione delle libertà con lo Stato. Al di là delle sue insufficienze e delle chiusure, espresse e tramandate dalla denominazione consorteria, c’era in questo stesso termine – come ha osservato Antonio Scialoja – una identificazione positiva della sua azione: “con oscuro intuito que’ medesimi che adoperano quell’aggiunto a modo d’ingiuria, sentono che vi ha uomini politici, i quali sono destinati ad intendersi fra loro e comporre un partito indipendentemente dalle regioni; uomini… che sono perciò destinati a seguire come sorte comune uno stesso indirizzo, e raggiungere come consorti uno stesso fine”. E’ indubbio però che nella vita quotidiana il termine qualificava una particolare pratica di esclusivismo invalsa sul piano della esperienza politica e amministrativa delle singole città ove i consorti erano gli aderenti alle maggioranze ministeriali i quali accentravano le cariche nelle mani di una ristretta clientela. Scarse erano le radici della consorteria nel Paese, non perché classe ristretta – ciò che si attagliava perfettamente alla natura dei regimi liberali dell’Ottocento – ma perché classe politica improvvisata come era improvvisata tutta la costruzione unitaria.

Nella politica italiana prima del 1870 non si ha comunque un unico e compatto partito che detenga costantemente il potere: la realtà è piuttosto segnata da una molteplicità di gruppi parlamentari e clientelistici: Destra, Sinistra, Centro, Terzo Partito, Permanente e gruppetti minori e indipendenti. C’era poi, naturalmente il Partito d’azione. Ma sino a che punto questo si identificava con la Sinistra? Difficile da stabilirsi. Cos’era il centro? La “consorteria meridionale” (ove spiccavano Pisanelli e Scialoja), rispondiamo con Petruccelli Della Gattina. E il Terzo Partito? Secondo questo medesimo autore il Terzo Partito aveva come capi Depretis, Pepoli, La Marmora, Rattazzi. Senonché, stando ad altre classificazioni, La Marmora è considerato della Destra, e Depretis della Sinistra. Il Terzo partito restava un desiderio che non si traduceva nei fatti, rispondeva all’esigenza di mediare le istanze della Sinistra con quelle della Destra assorbendole su un piano di legalità costituzionale; e lo vediamo ricomparire con altri uomini, Mordini, Bargoni, Fabrizi, nel 1868. In realtà tutti questi appellativi erano, al pari dei partiti stessi, una realtà evanescente che prendeva corpo solo nei parlamentari che li rappresentavano.

Le maggioranze ministeriali avevano per lo più una base parlamentare composita. Su o contro di esse premevano forze extraparlamentari, da un lato la Corte, mediante uomini politici di propria fiducia, dall’altro le tendenze e i moti operanti nel Paese: tendenze reazionarie (brigantaggio meridionale, rivolta palermitana del 1866, rivolta del macinato del 1869) e tendenze rivoluzionarie (Sarnico, Aspromonte, Mentana, moti mazziniani del 1869-70, bande insurrezionali della primavera del 1870). Il ministero Ricasoli era fondato su un’alleanza fra la Destra e il gruppo di Rattazzi. Il ministero Rattazzi poteva apparire formato con un “connubio segreto” col Partito d’azione (ne facevano parte Depretis e Mancini). Minghetti dava vita ad un governo esclusivamente di Destra. Ma dopo la Convenzione di Settembre si formava la “Permanente”, raggruppamento prodotto dal regionalismo piemontese. La Marmora si appoggiava al partito di corte (secondo un’interpretazione cara a Mario Vinciguerra) e cercava di disarmare la Permanente.

Intanto, nelle elezioni dell’ottobre 1865, si maturava un’atmosfera generale di delusione per l’opera politica della prima legislatura – un’opera che ad un esame storico obbiettivo appare veramente intensa e feconda in tutti i campi – rispetto alle speranze ed agli slanci del 1859-61. Scadeva il livello qualitativo della nuova Camera. Le opposizioni di Sinistra e della Permanente uscivano rafforzate. L’impressione fu di una “Babele”. “L’opposizione parve che guadagnasse, e certo guadagnò, ma solo in attitudine ad incagliare e distruggere sé ed altri” (Bonghi). Il secondo ministero Ricasoli – anche per la necessità di costruire un fronte nazionale durante la guerra per il Veneto – comprendeva anche uomini della Sinistra, ma subiva un’opposizione vivace da parte della “Permanente”; mentre Rattazzi ripeteva il “connubio segreto” col Partito d’azione. Il governo Menabrea nasceva come governo della Destra sostenuto dalla Corte, ma alla sua terza incarnazione, nel 1869, vi entravano due uomini del Terzo partito, Mordini e Bargoni. Con Lanza e Minghetti si tornerà invece a ministeri di sola Destra.

Dopo il 1870 la differenza di metodo fra Destra e Sinistra perdeva ogni giustificazione. La divisione politica si chiariva come un solco di natura morale acquistando il tono di una “contesa familiare, che è, fra tutte, la più accanita e furibonda” (Bonomi); rispecchiava due tradizioni di pensiero e di lotta richiamanti il doppio modo col quale s’era compiuta l’unita italiana. Rifletteva altresì la coalizione di tutti gli interessi colpiti e sacrificati negli anni precedenti. All’interno della stessa Destra si producevano o si accentuavano incrinature di ordine ideale e in materia di politica economica, fra statalisti e liberisti, tra forze di capitalismo agrario e di capitalismo industriale. Piemontesi, lombardi e toscani rappresentavano interessi bancari e industriali contrastanti (gruppi de “L’Opinione”, de “La Perseveranza”, fra i quali Minghetti tentava un’azione di trait-d’union, gruppo toscano) che la politica tributaria e ferroviaria veniva ad esasperare. Il sud soprattutto, ove lo Stato aveva collocato di peso il complicato meccanismo del sistema rappresentativo su una società rudimentale, ingrossava le file della Sinistra.

La caduta della Destra sarà, in una certa misura, un’esplosione di regionalismo contro la setta unitaria. Non a caso Giolitti ha potuto scrivere che “la Destra cadde parte per ragione delle sue stesse virtù”; e invano del resto si cercherebbe di spiegare la sua politica con un criterio puramente di classe. Costretta fra le necessità della spesa e la necessità di aumentare le entrate (lo Stato infatti pompava crediti da tutte le parti, ricorrendo al debito pubblico perfino all’interesse del 9 per cento), essa subordinava gli interessi di classe ai problemi dello Stato, ostacolava la possibilità di investimenti produttivamente redditizi e di conseguenza rallentava il processo di capitalizzazione. Rimproverare alla Destra di non avere avvertito l’esigenza immediata di un allargamento delle basi dello Stato, significa trascurare che in quegli anni le masse erano in gran parte contro lo Stato. Il medesimo Giolitti rilevava però che la sua politica tributaria aveva cercato “non il migliore dei mezzi… ma quel mezzo che poteva dare risultati certi immediati”; e bisogna peraltro riconoscere la sua incertezza ad esprimere le aspirazioni della borghesia economicamente più avanzata. L’ottenuto pareggio del bilancio aveva come contropartita un maggiore impoverimento del Paese, una grave sperequazione fra le classi, fra l’amministrazione dello Stato e quelle locali, fra Nord e Sud.

Le elezioni politiche del 1874 – le prime di cui si abbiano statistiche attendibili – indicano chiaramente che in quelle consultazioni veniva in luce il dissidio politico determinatosi fra l’Italia centro-settentrionale e l’Italia meridionale. La destra prevaleva di misura riportando una maggioranza di 44 eletti saliti a 52 in sede di elezione del Presidente della Camera. Ogni cento eletti gli appartenenti alla Destra erano 56,5 nell’Italia settentrionale, 23,2 in quella centrale, 15,6 e 4,7 rispettivamente nell’Italia meridionale e insulare. Su ogni cento deputati della Sinistra la ripartizione dava i seguenti corrispondenti risultati: 28,5; 8,2; 43,5; 19,8. Si osserva insomma che nell’Italia settentrionale e centrale si aveva una maggioranza di Destra mentre nelle altre regioni si registrava un predominio della Sinistra. Inoltre la distribuzione dei seggi conquistati dai due partiti secondo il rapporto percentuale dei voti attribuiti agli eletti (124 deputati di Destra conseguivano meno di 80 voti e solo 45 più di 90; mentre 104 eletti di Sinistra ne raccoglievano meno di 60 e ben 49 più di 90) ci fornisce un altro indice dei limiti della vittoria della Destra. L’annuncio del pareggio, il 9 marzo 1876, era il suo “canto del cigno”. Ma al di là delle cause rappresentate dalla politica fiscale e dagli indirizzi economici, la caduta della Destra era in relazione anche con gli atteggiamenti sempre più autoritari e polizieschi che essa era venuta assumendo – come attesta particolarmente l’episodio degli arresti di Villa Ruffi – e che avevano reso odiosi al Paese i suoi metodi di governo. Tale orientamento, posteriormente al 1871, si spiega in parte con lo spettro della Comune e con la necessità di garantire l’Europa – ove si cercavano alleati – che l’Italia era un Paese conservatore, fattore di ordine e di equilibrio.

 

 

 

 

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