Cavour e Mazzini
Dopo le delusioni seguite agli insuccessi dei moti del 1831, maturarono in Mazzini nuove riflessioni politiche per provare a risolvere il problema nazionale con metodi e vie diversi da quelli fino ad allora battuti dalla carboneria.
Nato a Genova nel 1805 da famiglia di sentimenti liberali, fu influenzato, giovanissimo, dal rigorismo religioso giansenistico di sua madre Maria Drago. Scosso dalla visione dell’esodo dei compromessi coi moti del 1821 che si imbarcavano a Genova verso l’esilio, divenne carbonaro. Denunciato da una spia, fu arrestato e rinchiuso per qualche mese nel forte di Savona. Inviato in esilio a Marsiglia, prese contatti con gli emigrati politici italiani e con essi pose le basi di una nuova organizzazione, la Giovane Italia.
Vi aderirono tanti giovani emigrati, Luigi Amedeo Melegari, Angelo Usiglio, Celeste Menotti, Giuseppe Lambertini, vi aderirono esuli napoletani come La Cecilia e molti esponenti buonarrotiani. Il problema nazionale veniva ad assumere un carattere preciso, si affermava con l’ideale dell’unità, che sembrava follia ai benpensanti dell’epoca, e che era apparso solo sporadicamente nei moti del 1820-21, senza che divenisse mai un programma politico concreto. In quanto ai metodi, essi consistevano essenzialmente nel concepire una rivoluzione di popolo, un moto generale che, fidando in se stesso e in Dio, doveva conquistare libertà, indipendenza ed unità. Bisognava quindi promuovere la guerriglia contro i governi reazionari, dovunque e comunque fosse possibile, organizzare spedizioni che scuotessero i popoli dalla loro inerzia, costituire bande armate che lottassero con risoluta decisione. La Giovane Italia superava la mentalità del XVIII secolo, non si rivolgeva agli spiriti eletti del suo tempo, non aveva verità da rivelare con strani rituali, si rivolgeva al popolo.
Mazzini non era più il segretario della Vendita genovese “La Speranza”, ora parlava di un’Italia una, libera, indipendente e repubblicana: “È indubitabile che una nazione italiana esiste e che sia destinata a formare un grande stato unitario. Non vi sono cinque Italie, quattro Italie, tre Italie. non vi è che una sola Italia. Dio che, creandola, sorrise sovr’essa, le assegnò per confine le Alpi e il mare. Sia tre volte maledetto da voi e da quanti verranno dopo voi chiunque presumesse di segnarle confini diversi. Dalla cerchia immensa delle Alpi, simile alla colonna di vertebre che costituisce l’unità della forma umana, scende una catena mirabile di continue giogaie, che si stende sin dove il mare le bagna e più oltre nella divelta Sicilia. E il mare la ricinge quasi d’abbraccio amoroso ovunque l’Alpi non la ricingono: nel mare che i padri chiamavano mare nostro. E, come gemme cadute dal suo diadema, stanno disseminate intorno ad essa, in quel mare, Corsica, Sardegna, Sicilia ed altre minori isole, dove natura di suolo e ossatura di monti e lingua e palpito d’anime parlano d’Italia. Ecco, a quei confini tutte le genti passeggiarono l’una dopo l’altra conquistatrici e persecutrici feroci, ma non valsero a spegnere quel nome santo d’Italia, né l’intima energia della razza che prima la popolò. L’elemento italico, più potente di tutte, logorò religioni, favelle, tendenze dei conquistatori, e sovrappose ad esse l’impronta della vita italiana”.
Tuttavia in ciò Mazzini si illuse: se pure la sua azione costituì il più vitale fermento della azione politica nazionale e le conferì un altissimo significato ideale, essa non poté mai contare sull’apporto delle masse e, fallita la spedizione di Savoia, fallirono pure i fratelli Bandiera. Se pertanto il movimento mazziniano costituì la leva più potente dello spirito nazionale per il suo atteggiamento rivoluzionario e per la chiarezza delle sue visuali politiche, per queste stesse ragioni esso si alienò sia chi anteponeva l’unità alla questione repubblicana, come Garibaldi, sia chi era incline, invece, al moderatismo della mediazione liberale fra il vecchio il nuovo che Cavour andava elaborando in sostegno del partito sabaudo.
La Farina nelle sue memorie ricordò come il 12 settembre del 1856 si sentì dire da Cavour: “Ho fede che l’Italia diventerà uno stato solo e che avrà Roma per sua capitale; ma ignoro se essa sia disposta a questa grande trasformazione, non conoscendo punto le altre provincie dell’Italia. Sono ministro del re di Sardegna, e non posso né debbo dire o fare cosa che comprometta avanti tempo la dinastia”. Questo era ciò che muoveva il presidente del Consiglio di Vittorio Emanuele II, una grande fede nel percorso unitario.
Nel marzo del 1859, alla vigilia della guerra per il Lombardo-Veneto scrisse a Nigra che la bandiera tricolore sarebbe sventolata “prima di un anno, se non sul Tevere, certo sulle sponde dell’Adriatico”. Questa certezza, questa forte convinzione poggiava su una serie di solide basi politiche. Prima tra tutte la monarchia parlamentare e costituzionale sabauda come sistema più equilibrato ed evoluto della Penisola. Seconda, la marcia incalzante della rivoluzione nazionale. Cavour costruì un ponte tra questi due elementi, l’alleanza della monarchia sabauda con la rivoluzione.
L’iniziativa politico-militare assunta dallo stato sardo avrebbe realizzato la rivoluzione nazionale senza precipitare nel giacobinismo sull’esempio di quella conciliazione già cercata e proposta da Napoleone III attraverso quello il cesarismo democratico. Garibaldi avrebbe voluto la dittatura rivoluzionaria, Mazzini la costituente repubblicana, Cavour invece dà ad un parlamento rappresentativo il potere di incoronare Vittorio Emanuele.
Ottenuta la Lombardia e consolidata Casa Savoia alla guida del movimento nazionale, la rivoluzione dell’Italia centrale e la spedizione dei Mille sono eventi conseguenti e la campagna dell’esercito nelle Marche e nell’Umbria chiudono il processo politico. Niente rispondeva ad un piano prestabilito punto per punto, ma tutto era scatenato da una fede. Ora questa stessa fede poneva le premesse perché il tricolore sventolasse davvero sul Tevere. Infatti, i plebisciti, configurazione del principio di autodeterminazione popolare, creavano la “questione romana”, minarono sul serio il potere temporale e lo fecero nella terra stessa del Papa re. Cavour non vide Porta Pia, ma era nel giusto pensando che l’unificazione si sarebbe conclusa con la distinzione tra potere civile e potere religioso perché la fine del giurisdizionalismo assolutistico pontificio era iniziata a Torino con la legge Siccardi del marzo 1850.
E mentre si innalzava l’astro di Cavour, declinava quello di Mazzini. L’aureola che lo circondava dai tempi della difesa della Repubblica Romana, e che l’aveva accompagnato sino a Londra, andò sbiadendosi. In rotta di collisione coi socialisti, Mazzini aveva visto impiccare don Enrico Tazzoli sugli spalti di Belfiore e soffocare la rivolta milanese del 6 febbraio 1853. Pensò di far camminare le sue idee sulle gambe del partito d’azione e sferrò una nuova offensiva coi moti di Lunigiana del settembre 1853, ripetuti a maggio dell’anno seguente. Fallì e fallì un tentativo rivoluzionario a Roma nella notte del 14 agosto 1853 come il moto della Valtellina dello stesso mese. Ci riprovò con i moti di Genova e Livorno del 1857, sperò nella spedizione nel Napoletano di Carlo Pisacane. Furono gli ultimi insuccessi. I suoi uomini lo abbandonarono convergendo attorno a Cavour con la fondazione di una Società Nazionale. Pallavicino Trivulzio, Daniele Manin, Garibaldi stesso e poi il siciliano Giuseppe La Farina. Furono loro i protagonisti del 1859. Furono loro ad innescare la rivoluzione, ma non c’era Mazzini a tesserne le trame. C’era Cavour.
Autore articolo: Angelo D’Ambra
Fonte foto: dalla rete
Bibliografia: L. Salvatorelli, Spiriti e figure del Risorgimento; W. Maturi, Partiti politici e correnti di pensiero nel Risorgimento