Anche altri monasteri contemporanei a quello di Cava, come la vicina San Vincenzo a Castelvorturno, quelle di San Nicola nelle isole Tremiti, San Fruttuoso a Camogli o Santa Maria di Farfa nel reatino, compresero come fosse strategico il trasporto marittimo o fluviale di derrate alimentari e vettovaglie. Nato tra il 1011 ed il 1025, grazie al cluniacense Sant’Alferio Pappacarbone, il cenobio cavense intraprese con il successore Pietro Pappacarbone una politica di espansione territoriale ampliata anche da traffici marittimi di cabotaggio esercitati attraverso gli approdi di pertinenza dei domini lungo la costa amalfitana e cilentana ottenuti durante la dominazione longobarda.
Durante il governo di Pietro e dei suoi successori, grazie anche ai privilegiati rapporti con i nuovi dominatori normanni e l’appoggio di papa Urbano II (di estrazione benedettina) l’abbazia accompagnava l’esercizio dello “ius anchoragi et phalangagi” nei porti di Veteri (Vietri), Fontis (Fonti) e Cetara con quello dello ius piscandi nei casali di Cetara e Castrum Abbatis (Castellabate) quest’ultimo fondato dall’abate Costabile. Presso tali casali insistevano anche stabilimenti per la lavorazione del tonno in località Erchie e Palinuro.
L’uso dei porti di Vietri, Fonti e Cetara nonché le tariffe relative vennero successivamente regolamentati dall’abate Balsamo tra il 1222 ed il 1225. Si trova anche traccia degli intensi scambi commerciali con Genova, Pisa, Gaeta, Napoli, Sorrento, Amalfi, Scalea e Lipari. Specialmente il porto di Vietri, che Cava utilizzava dal 1086, divenne presto l’hub di riferimento per le merci da esportare in Africa e Oriente nonché per le visite diplomatiche degli abati presso i monasteri levantini.
Gli scali ubicati presso i fiumi Tusciano e Sele, ove si sviluppò un efficiente servizio di battellaggio, permisero l’intermodalità presso i territori dell’entroterra fino alle successive esportazioni dall’Adriatico.
La rete portuale della
Badia di Cava, tra il 1196 ed il 1197 si arricchiva successivamente anche di altri scali (
Staino in
Agropoli,
Travierso,
Pozzillo,
Santa Maria de Gulia e
Oliarola in
Castellabate,
San Primo di Cannicchio e
Santa Maria de Puppi in
Pollica,
San Matteo in
Casalvelino) che permise al
Cilento di accrescere la sua filiera produttiva sia a livello agricolo che ittico. In particolare castagne e nocciole erano molto richieste nei mercati
“extra regnum” e, durante il governo dell’
abate Benincasa, assunse successivamente anche una dimensione internazionale quando i
benedettini, attraverso l’intensa attività di supporto diplomatico e medicale agli
amalfitani negli
hospitales ubicati in
Terra Santa, tra i quali il più importante era quello di
San Giovanni in Gerusalemme, ottennero nel 1181 – con diploma di
re Baldovino IV firmato da
Guglielmo,
arcivescovo di Tiro – franchigie e libertà di commercio nei porti empori del
regno latino di Outremer tra i quali spiccavano oltre a
Tiro e
Sidone anche
Giaffa e
San Giovanni d’Acri.
Le veloci saettie benedettine, probabilmente costruite presso gli “scarica” di Positano e Amalfi e menzionate nei registri degli abati Balsamo e Tommaso, si spinsero anche ad Al Mahdiyyah, in Tunisia, e ad Alessandria d’Egitto sfruttando mercati già consolidati dagli amalfitani i quali fornivano al Monastero anche propri marinai tra cui il più famoso è Giovanni di Atrani, prima nocchiero poi abate del monastero di San Benedetto di Salerno.
Il momento più alto del traffico fu raggiunto nel XIII secolo e via via andò scemando a seguito di eventi naturali, scelte economiche dettate dalle murate necessità, cambiamenti politici nel Regno di Sicilia e mutamenti dello status del potere abbaziale nel XV secolo.