Il grande tempio di Madurai
Il poeta torinese Guido Gozzano viaggiò in India nel 1912 e scrisse una serie di articoli poi raccolti nel volume “Verso la cuna del mondo” da cui traiamo questa descrizione del grande tempio indù di Madurai.
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Madura è la città sacra del bramanesimo, mèta di pellegrinaggi senza fine, luogo d’adorazione continua, dove la vita e la realtà non servono che alla contemplazione e alla preghiera. La città contiene quasi più templi che case, più sacerdoti che cittadini. La grande pagoda a Siva e a Minakshi «la dea dagli occhi di pesce» è per sé sola una città e un labirinto. Come tutti i templi bramini, non consiste in un edificio soltanto, ma in varie costruzioni chiuse in cortili concentrici, in recinti sempre più vasti, ed ogni recinto è sormontato da due gopuram, le cuspidi che innalzano a ottanta metri nel cielo il simbolismo pazzesco delle loro sculture. Nei cortili sono le abitazioni per i bramini d’alta casta, le piscine per la abluzioni dei fedeli, statue, idoli colossali, mercati coper, tutto quanto concorre alla vita materale e morale d’un popolo in adorazione.
Giungo nel Tempio quasi senza accorgermene, lungo una larga via fiancheggiata di case a veranda che ricorderebbero le costruzioni di Roma provinciale se le colonne classiche non fossero sostituite dalla colonna indiana, quadra, dal capitello a testa elefantina, a mostri sogghignanti. La via giunge fin sotto la prima piramide, prosegue dentro il tempio, ampia e popolata, attraverso un arco ciclopico che s’apre nella piramide stessa; e la città profana continua nella città sacra. Passo dalla luce abbagliante nella penombra religiosa, m’addosso alla parete di granito, per orizzontarmi, e sento che il granito palpita e cede; è uno degli elefanti sacri, un colosso decrepito che sembra scolpito nella pietra stessa del tempio, la sua proboscide mi sfiora le mani, il volto in una carezza indulgente; un altro è sdraiato e profila l’immensa groppa tondeggiante, ingombrando il bel mezzo della via, deviando il traffico e il transito dei devoti; tre elefanti novelli, minuscoli ancora, passano al trotto, con tinnito di sonagli, una mucca zebù s’avanza incerta ammusando gli erbaggi, i frutti offerti dai fedeli; mucche ed elefanti di questo recinto sono animali sacri, addetti a cortei religiosi, idoli viventi del tempio di Madura, e non si gettano come vili nemmeno i loro escrementi. Incombe su tutto il tempio un senso d’idolatria che mi fa pensare al feticismo dell’Africa più nera e non alle divine speculazioni dei Veda. Passa il corteo di Parvati, un rito che si ripete due volte al giorno, portando in giro rimmagine della moglie di Siva, in visitazione a tutti i tabernacoli del sacro recinto; il feticcio, pupattola d’oro massiccio, dalla vita sottile, dai seni turgidi, dagli occhi tondi d’onice incastonato sotto l’alta mitra ingioiellata, appare, dispare attraverso le cortine della ricca portantina. Accompagna la scena un rombo di tam-tam, uno stridìo discorde di trombe e di pifferi, incutendo nell’anima del forestiero un senso di paurosa diffidenza, di ripugnanza, come un mistero tetro e grottesco. Ovunque nel tempio famso è la profusione di tesori e l’incuria più laida.
M’avventuro fino al secondo, al terzo recinto, passo dall’ombra alla penombra, alla luce, rientro sotto l’immense vòlte sepolcrali costrutte a blocchi monolitici di quindici metri di lunghezza, alzati, ordinati a formare un soffitto titanico che ricorda l’Egitto faraonico. Sotto la gopuram centrale le colonne si moltiplicano, si perdono nell’ombra, come tronchi centenari in una foresta d’abeti. Fuori è ancora la chiara luce del tramonto, ma qui è la notte completa costellata da un’infinità di lampade votive che disegnano, senza illuminarle, le colonne, le cancellate sacre, gli idoli colossali. L’occhio si abitua a discernere a poco a poco la folla di carne, di pietra, di metallo. Veramente non pensavo di trovare così intatta l’India favolosa, le forme imparate a conoscere fin dall’infanzia sulle incisioni e sui libri. Sono deluso invece nella mia attesa filosofica nel mio amore per la più grande religione che abbia espressa l’umanità nel suo sgomento di dover nascere, di dover morire. È questa la terra di Brama? Di Brama «l’ineffabile, colui che non dobbiamo nominare, se vogliamo che sia presente?» Ma qui il nome divino è feticismo immondo, praticato da un popolo forsennato che ha ridotto le speculazioni astratte ad un simbolismo pazzesco; un popolo che adora questi simboli e li ignora, un popolo che si genuflette, grida, invoca e non sa chi, non sa che cosa.
M’avanzo nella penombra, sempre fra le colonne infinite, sotto le vòlte piatte e sono guidato da due indigeni che sollevano le fiaccole resinose; e le pareti s’illuminano un poco, e appaiono strane divinità, sempre chiuse in gabbie dalle sbarre robuste, come belve da custodire; e Ganesa, il Dio della saggezza che appare più frequente, con tutti i suoi congiunti a testa elefantina; o una divinità innominata dal corpo di mucca e dalla testa femminile: e il corpo bovino e gibboso, è imitato fedelmente sul modello degli zebù indigeni, e il volto femminile è scolpito sul tipo indiano, con gioielli alla fronte, agli orecchi, al naso, e un sorriso insostenibile di baiadera convulsa. Le fiaccole sollevate in alto turbano il sonno dei grandi pipistrelli vampiro ed è uno squittire di sorci impauriti, un turbinare di ale silenziose che ci ventano in volto come grandi lembi di seta nera.
Si esce all’aperto, nel cortile centrale. E alla luce del tramonto appare la grande piscina del tempio, un rettangolo di cento metri di lunghezza, chiuso ai quattro lati da scalee di marmo, circondato da colonne leggiadre, evocanti la grazia d’un peristilio pompeiano. Dopo l’ombra tetra e le fiaccole gialle e gli idoli spaventosi, l’anima si ristora in riva a quest’acqua cristallina, liscia come uno specchio, dove, il cielo riflette con un nitore preciso le nubi sanguigne, alternate all’azzurro cupo, e le prime stelle della notte che giunge. Intorno, vicine e lontane, s’alzano le gopuram, le cuspidi che dominano Madura, da tutte le parti. E prima del tramonto voglio salire sui fianchi della gopuram d’ingresso, vedere vicine, palpare le sculture famose. Non c’è spazio che non sia stato scolpito a fregi, a divinità, a mostri; e con altorilievo così audace che le figure sembrano gesticolare, staccarsi, precipitare verso il profano per farlo a pezzi con le loro venti braccia armate di scimitarra, con le loro coorti di tigri, di serpenti che salgono alla sommità dove la cuspide tronca sfida il cielo con venti lancie disuguali. È tutta una teogonia simbolica, una personificazione delle forze della Natura che lo spirito induista ha diviso, suddiviso con un’analisi tragica e grottesca che suscita lo spavento ed il sorriso. Dal fianco di questa gopuram si domina la città e la campagna, dove altre pagode s’innalzano sull’ondeggiare verde vivo dei cocchi: e molte pagode sono chiese cristiane: chiese costrutte nello stile Indu, e che sono più antiche delle nostre più antiche cattedrali. Poichè il cristianesimo fu predicato in questa parte dell’India da San Tommaso, e le Missioni seguirono le Missioni, indisturbate nei secoli, bene accolte dagli stessi sacerdoti, in questa terra indulgente per tutti i culti, purchè si adori, purchè si creda….
Qui dunque, si pronunciava il nome di Cristo quando l’Europa era ancora pagana! È un pensiero che dà quasi uno sgomento d’esotismo estremo, di lontananza misteriosa nello spazio e nei secoli. È un pensiero che sembra inconciliabile con questa piramide popolata di eroi e di mostri che danno la scalata al cielo di fiamma. E nel cielo che s’arrossa turbinano falangi di corvi e di pappagalli che ritornano ai loro nidi sospesi tra le sculture di quest’Olimpo furibondo. Allo stridìo dei. pennuti, che giunge all’alto, s’accorda lo stridìo dell’orchestra che giunge dal basso del Tempio, da tutti i templi vicini e lontani: tam-tam rombanti, pifferi striduli che parlano di furore selvaggio e d’idolatria….