Attività lavorative nella Roma antica

Nell’antica Roma si contavano una pluralità di attività lavorative, sebbene l’economia fosse retta in sostanza dalla schiavitù. Ancora oggi non c’è metropoli che non presenti grandi contrasti. Roma, il centro del mondo d’allora, era così.

Città d’opulenza, cuore pulsante della potenza imperiale, Roma era un fittissimo agglomerato di gente diversa per cultura ed estrazione sociale. Aveva i suoi favoriti dalla sorte, quelli che profondevano ingenti somme nell’allestire banchetti o comprare nani, e al contempo aveva mendici, senza tetto, gente che si guadagnava da vivere con espedienti, lavoratori, bottegai e chi chiedeva panem et circenses. la realtà era fatta di templi e monumenti, ma anche di catapecchie, fame e freddo. La Roma popolare era quella dei venditori ambulanti che offrivano zolfanelli o li barattavano con vetri rotti, era quella di modesti banditori di cianfrusaglie, di libelliones che offrivano libri usati, di esercenti delle popinae, spacci di vivande calde, e di salarii, salumai che mandavano in giro per la città i loro garzoni ad offrire cibo da strada. Sterminato era poi il numero delle botteghe.

Ce ne parla M. P. Charlesworth in Le vie commerciali dell’impero romano: “La necessità di far fronte alle sempre maggiori esigenze della popolazione e la costruzione di grandi edifici pubblici e privati fecero sorgere in Roma molte nuove industrie, che si svilupparono rapidamente. A questo incremento della produzione industriale in Roma contribuì non poco anche il progressivo aumento del numero degli schiavi, che venivano importati in Italia dalle varie province dell’Impero e che, giunti a Roma, venivano, secondo le loro capacità, riuniti in squadre messe agli ordini di un capotecnico. Chi doveva far eseguire un lavor che richiedesse l’impiego di molta mano d’opera ne dava di solito l’incarico ad un appaltatore, il quale provvedeva a farlo eseguire dai suoi operai. Per lavori di minore importanza v’erano disponibili in Roma artigiani indipendenti, che attendevano al lavoro per conto proprio, in proprie botteghe, con l’aiuto di garzoni e di apprendisti. Accanto a questi artigiani indipendenti v’era, però, anche un’organizzazione tecnica dell’artiglianato, che distribuiva il lavoro secondo le diverse abilità degli iscritti. La mercede degli operai era corrisposta a cottimo o a giornata, e la giornata lavorativa durava dal mattino fino a quando c’era il sole. Dal naturale raggrupparsi di mestieri affini si formarono così le corporazioni operaie, le più importanti delle quali erano: orefici, legnaioli, tintori, calzolai, cuoiai, ramai e pentolai. Numerosi artigiani si dedicarono anche alla lavorazione del legno, distinguendosi nella fabbricazione di travi, infissi e soprattutto di elegantissimi mobili. L’arredamento della casa, il vestire, le cure del corpo davano anch’esse lavoro a molti artigiani; e per tanti operai e tante botteghe pullulavano dappertutto i barbieri, di cui tutti avevano bisogno, perchè l’uso di radersi da sè era allora sconosciuto”.

Era frequente imbattersi in ammaestratori di vipere, in poeti che declamavano improvvisati versi o in un medico ciarlatano. “Tutti lo stanno a sentire, ma nessuno gli affida la propria pelle”, diceva Catone. Nei negozi un incredibile quantità di operai lavorava con ritmi folli. E c’erano certe strade che ospitavano botteghe tutte dello stesso genere, così Cicerone cita la “Via dei Falcari”, il Vicurs Unguentarius, quello dei profumieri, il Vicus Vitrarius, quello dei vetrai etc. Rendeva molto denaro il mestiere stesso di bottegaio: a chi aveva più di una taberna era facile mettere assieme un bel patrimonio. V’erano artigiani indipendenti, aiutati da apprendisti e garzoni, e vi erano vere e proprie manifatture di lavoratori dipendenti. L’operai libero alle dipendenze di un padrone lavorava per un salario fissato liberamente, a cottimo perlopiù. Fu Diocleziano a fissare alcune tariffe. Dal naturale  raggruppamento dei mestieri affini si formavano poi le corporazioni che i nRoma erano potentissime. La tradizione le faceva risalire a Numa Pompilio, che ne avrebbe istituite otto, quella dei flautisti, quella degli orefici, quella dei legnaiuoli, quella dei tintori, quella dei calzolai, quella dei cuoiai, quella dei ramai e quella dei pentolaia.

Dall’intera pensiola affluivano nell’Urbe i migliori prodotti dell’industria del tempo. Charlesworth lo dice: “Fuori di Roma, le regioni più ricche d’industrie erano la Valle del Po e la regione campana. Dalla Valle del Po venivano inviate a Roma grandi quantità di formaggi e salumi. A Padova si tesseva ottima lana e si fabbricavano abiti, coperte, tappeti, lenzuola, che venivano spediti nella capitale, dove ce n’era grande richiesta. Un’altra città fiorente era Aquileia, che lavorava l’acciaio e il ferro ricavato dal Norico e che esportava vasellami ed altri prodotti fra i barbari. Nell’Italia centrale era celebre Arezzo per le sue terraglie. Nell’Italia meridionale importanti officine metallurgiche sorgevano a Pozzuoli; intorno a Capua esistevano importanti manifatture per la lavorazione del bronzo e del rame. In quel tempo Pozzuoli era il porto più grande e più attivo d’Italia”.

 

 

 

 

Autore articolo e  foto: Angelo D’Ambra

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