Il barone Ricasoli
Il Mugello, il Valdarno e le colline del Chianti erano costellate di torri e castelli dei Ricasoli, una delle poche casate toscane che traevano origine non dalla mercatura ma dalle armi. Bettino Ricavoli era nato nel 1809 quando il patrimonio familiare s’era ormai piuttosto assottigliato. Il ragazzo aveva studiato al Cicognini di Prato, era stato a Parigi, a Vienna ed era tornato a Firenze assumendo l’amministrazione della vasta ma malandata fattoria di Brolio. Vi si trasferì con la moglie, Anna Bonaccorsi e, con un’attenta gestione economica, riuscì a salvarla dal disastro, rendendola produttiva in campo enologico e provvedendo alle condizioni morali e materiali dei suoi mezzadri.
Spinto da un forte spirito religioso ma non clericale, subì l’influenza di amici giansenisti come Gino Capponi, di preti liberali come Raffaello Lambruschini e di veri protestanti come il conte Piero Guicciardini detto “Il Quacchero”. Tutto ciò si tradusse in una vita dettata da rigide regole, come se la fattoria di Brolio fosse un convento. Educò personalmente i propri contadini in materia di fede e religione. Non interessato ad altro, rifiutò la carica di ciambellano del granduca Leopoldo II. Nutriva, infatti, un certo disdegno per la vita di corte. Di fondo era un conservatore sebbene professasse che “le rivoluzioni, anche le più macchiate di delitti, producono un risanamento morale tra gli uomini”. Così, quanto a simpatie umane, le sue andavano piuttosto a Mazzini, per ragioni di affinità morale. La discesa in campo politico per il nobile toscano avvenne nel febbraio del 1846, quando inviò un coraggioso memoriale al granduca per incitarlo a promulgare le riforme richieste dagli ambienti liberali. Non fu ascoltato e l’anno dopo, con un giornale, La Patria, diede voce alle sue idee.
Arrivato il 1848, vi ci si buttò a capofitto entrando in contrasto coi suoi amici moderati e perfino col carissimo Capponi. Ottenne un gravoso compito quando dovette occuparsi di una questione spinosa insorta all’indomani dell’annesione alla Toscana del Principato di Lucca. Il Duca di Modena, in risposta, con un colpo di mano aveva occupato Pontremoli e Ricasoli fu spedito presso Carlo Alberto affinchè facesse da mediatore tra i due contendenti. Da Torino, il barone fiorentino tornò convintò che la guerra contro l’Austria fosse imminente, il granduca non gli dette retta neppure stavolta e quando provò a nominarlo gonfaloniere di Firenze, in cambio Ricasoli pretese l’immediata riforma del sistema amministrativo, la libertà di culto ed una carta dei diritti. Fu così che fu tacciato d’essere “albertista”, cioè sostenitore degli interessi di Carlo Alberto e del Piemonte. Tale accusa lo portò ad un duello col marchese Torrigiani. Dopo essersi battuti in una strada di Firenze, entrambi andarono a chiedere scusa a Leopolo II il quale rispose: “Avete voluto la libertà di stampa? E adesso tenetevi le conseguenze”.
La guerra venne, il granduca fuggì ma Ricasoli preferì tornarsene a Brolio, riaffacciandosi a Firenze solo dopo la sconfitta di Novara, quando il granduca fece ritorno sulla punta delle baionette austriache. Il barone, ch’era stato uno dei cinque “probi cittadini” cui la città si era affidata per trattare una restaurazione senza vendette, non volle collaborare e preferì addirittura emigrare con la famiglia in Svizzera. Tornò due anni dopo, senza passare neppure per Firenze. Da Brolio seguì le faccende della politica, ammirò l’astro di Cavour e quando nel 1859 il granduca si congedò definitivamente dai fiorentini, Ricasoli divenne ministro degli interni, sotto il commissariato di Boncompagni. Governò per bandi affissi ai battenti delle chiese, più convinto dell’unità che non il suo amico Cavour. Il piemontese, infatti, pensava ad un regno sabaudo fermo all’Alta Italia, Ricasoli invece voleva l’annessione completa, a cominciare da quella della Toscana.
Senza aspettare autorizzazioni, bandì un pelibiscito e ne portò di persona il responso a Vittorio Emanuele II: la Toscana voleva l’unità. Il re sardo ne fu più imbarazzato che soddisfatto, soprattutto perchè la pace di Villafranca, imposta da Napoleone III, gli legava le mani. Ricasoli allora andò a consigliarsi con Cavour che gli propose di pazientare. Di lì a poco sarebbe divenuto governatore provvisorio della Toscana. Con questa carica non rinunciò ai suoi disegni, diede ospitalità a Giuseppe Mazzini, su cui pendeva ancora la condanna a morte per la tentata sollevazione di Genova del 1857, inviò armi a Viterbo e nelle Marche per fomentarvi la rivolta contro Pio IX e, dopo l’ingresso di Garibaldi a Napoli nel settembre del 1860, scrisse una lettera imperiosa a Cavour e al governo per chiedere di mobilitare l’esercito per affiancare i volontari garibaldini. Così avvenne.
“Se morissi domani, il mio successore è designato”, disse Cavour pochi mesi prima di chiudere gli occhi, alludendo a lui ed il 12 giugno del 1861 questa successione avvenne. Dopo aver formato un governo in cui assunse, oltre la presidenza, anche i dicasteri della guerra e degli esteri, tentò di risolvere diplomaticamente la questione romana e di spegnere il brigantaggio nel Meridione. Estese a tutto il Paese gli ordinamenti dello stato sabaudo, tra cui la suddivisione in provincie e comuni, nell’ottica di una visione di compagine statale centralizzata che il primo ministro sosteneva a discapito del progetto regionalistico proposto da Marco Minghetti, e acconsentiò all’unificazione dei debiti pubblici degli stati preunitari, inoltre ammise gran parte dei volontari garibaldini nell’esercito regolare e revocò l’esilio a Mazzini. Ottenuto il riconoscimento del Regno d’Italia da parte della Francia, inviò a Parigi un progetto di riconciliazione con il papa che prevedeva l’annessione di Roma in cambio della sovranità personale di Pio IX sulla capitale, una donazione annua per il Vaticano e l’autonomia papale per la nomina dei vescovi. Il governo francese però rifiutò la proposta. Dopo che il 28 febbraio 1862 aveva inviato al sovrano, che lo accusava di essere troppo attendista, un’aspra lettera di congedo, si dimise.
Ebbe un secondo e più breve incarico, sostituendo il generale La Marmora, che aveva assunto il comando dell’esercito italiano durante la Terza Guerra d’Indipendenza, e dovette far reprimere la Rivolta del sette e mezzo, scoppiata a Palermo tra il 16 ed il 22 settembre 1866. Fallì però ancora una volta nel tentativo di guidare una riconciliazione col Vaticano. Dimessosi, visse nell’amato castello di Brolio dove morì il 23 ottobre 1880.
Autore articolo: Angelo D’Ambra
Fonte foto: dalla rete