Carlo Alberto e il fallimento della spedizione di Savoia
Il regno di Carlo Felice era sconfinato in un assoluto vuoto di potere. Diffidente e freddo, il re “non governava nè lasciava che altri governasse per lui”. I suoi rapporti col nipote Carlo Alberto erano talmente incrinati che non molti temettero che alla fine l’avrebbe scartato dalla successione. Mai gli aveva perdonato la complicità coi liberali nel 1821. A tre mesi dalla morte però sorprese tutti e calmò le serpi della corte concedendogli il titolo di Altezza Reale. Non era tornato il sereno: quando la malattia lo costrinse a rinunciare definitivamente agli affari di stato, fu sua moglie Maria Cristina a assumere la reggenza. Carlo Felice non volle il nipote nemmeno al suo capezzale. Si spense un re inflessibile di carattere, fedele ad una cavalleresca concezione dell’onore, magnanimo ma non adatto al governo. Ora era il momento di Carlo Alberto.
Su di lui cadevano speranze e sogni dei liberali. Alcuni di essi, come il Porro, lo consideravano un traditore, altri lo sostenevano, pensando che si sarebbe riconvertito alla causa dopo il voltafaccia del 1821. Mazzini gli indirizzò una famosa lettera: “L’Italia sa che voi avete di regio più che la porpora”, gli scrisse e lo esortò ad assumere risolutamente la guida della liberazione: “Sire, respingete l’Austria, lasciate addietro la Francia, stringetevi a lega l’Italia. Ponetevi alla testa della nazione e scrivete sulla vostra bandiera Unione, Libertà, Indipendenza. Dichiaratevi vincide, interprete dei diritti popolari, rigeneratore di tutta l’Italia. Liberatela dai barbari. Edificate l’avvenire. Date il vostro nome ad un secolo”. Poco dopo, di Carlo Alberto avrebbe scritto ad un suo sodale siciliano: “è un codardo, se non peggio, e però non vi è speranza di salute da lui”.
Il giovane re, in effetti, rimaneggiò il governo, ma rafforzò l’ala reazionaria, ad eccezione del Ministro degli Interni, il Conte de l’Escarène. In politica estera si avvicinò all’Austria solo perchè il re Luigi Filippo d’Orleans aveva concesso la Costituzione. Finanziò così la Duchessa di Berry che sognava un complotto per cacciare Luigi Filippo dal trono e riportarvi un Borbone. Alla fine il regno dei Savoia stipulò con l’Austria un accordo per rispondere congiuntamente ad una eventuale invasione francese, il Torino con trentasettemila uomini, Vienna con cinquantamila, Carlo Alberto sarebbe stato il comandante supremo.
Anche la vita di corte fu improntata alla più stanca etichetta reazionaria. La giornata del re era seguita da riti puntigliosamente osservati, cominciava prima dell’alba con la messa, proseguiva con la rivista alle truppe poi con lunghe ore al tavolino per discutere di politica e governo.
Con gli amici di una volta fu spietato: a Chambery scoppiarono dei tumulti contro le sopraffazioni dei gesuiti che avevano ripreso il monopolio dell’educazione e Carlo Alberto emise ordini draconiani a tutti i governatori delle province perchè schiacciassero ogni sedizione. Nell’aprile del 1833, un sergente, a Genova, accoltellò per futili motivi un furiere, il quale si vendicò accusando il suo feritore di averlo voluto far entrare in una setta rivoluzionaria. La delazione condusse alal scoperta di una vasta attività cospirativa nei bassi gradi ell’esercito. Tra questi c’era Jacopo Ruffini. Negli interrogatori, per vincerne la reticenza, gli fu detto che a denunciarlo eran stati i suoi stessi compagni, persino Mazzini, e lui, sopraffatto dalla disperazione, si era suicidato. L’inchiestà andò oltre, venuta a capo del filo conduttore, ne identificò rapidamente tutte le diramazioni. Un ufficiale della setta fu fucilato a Chambery, il generale Guillet, anch’egli coinvolto, fu condannato a dieci anni di galera, il tenente sardo Efisio Tola fu fucilato dicendo: “Imparate com si muor”. Ad Alessandria, il governatore, il generale Galateri, fece fucilare l’avvocato Vochieri, il sergente delatore Ferraris ed altri cinque compagni. Un processo a Genova, invece, lasciò emergere la completa organizzazione della Giovane Italia grazie alla delazione di un mercante di Stradella, un certo Re, che poi fuggì a Lugano.
Mazzini non si lasciò intimorire e maturò in fretta e furia l’idea di una spedizione in Savoia: un corpo di volontari, reclutati fra gli esuli del Piemonte e guidati dal generale Ramorino, avrebbe innalzato il tricolore. Ramorino era un genovese, aveva iniziato la sua carriera nell’esercito napoleonico, l’aveva continuata in quello dei federati piemontesi del 1821, nel 1831 era accorso in Polonia a combattere con gl’insorti contro i russi. In ottobre incontrò Mazzini a Ginevra e definì i dettagli del piano. Contemporaneamente all’attacco in Savoia, alcuni equipaggi della flotta, fomentati da Giuseppe Garibaldi, avrebbero dovuto insorgere a Genova. Il generale avrebbe dovuto occuparsi solo dell’invasione. L’azione prevedeva un’avanzata da quattro direttrici: Saint-Julien, Seyssel, Laissaud e Les Échelles, ma niente andò come previsto.
Mazzini gli presentò una dote di quarantamila franchi per equipaggiare una colonna di mille uomini, ma Ramorino non portò che duecentocinquanta volontari, due soli generali, un aiutante ed un medico perchè la notizia era trapelata alla polizia svizzera che, cedendo alle pressioni di quella austriaca, aveva arrestato al confine il grosso della colonna, costituita da tedeschi e polacchi. Constatando la pochezza delle forze, Ramorino si tirò indietro, Mazzini no e si mise in marcia con quel piccolo esercito, nel frattempo ridottosi a centocinquana unità.
Il battesimo del fuoco avvenne a Grenoble. Volontari comandati dal tenente Benedetto Alemanni attaccarono un posto dei carabinieri ammazzandone uno, due volontari morirono, altri due furono catturati. Erano l’avvocato lombardo Angelo Volonteri ed il francese Joseph Borrel che furono condotti alla fortezza di Chambery, condannati a morte il 15 febbraio e il 27 fucilati alle spalle. Mazzini era finito colto dal delirio e i suoi l’avevano ricondotto a Ginevra ancora mezzo farneticante. Il fallimento fu completo quando si seppe che i marinai di Genova non erano insorti, si erano ritrovati in due, già identificati dalla polizia.
Autore articolo: Angelo D’Ambra