La crisi agraria di Roma del II secolo a.C.

Kalendo, in questo passo de Il contadino, in L’uomo romano a cura di A. Giardina, si sofferma sulla crisi agraria e la vita dei contadini romani nel II secolo a. C.

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Nel II secolo a. C. si verificarono cambiamenti fondamentali nelle condizioni della classe contadina in conseguenza delle grandi conquiste mediterranee. Il processo portò infatti a una fondamentale “modernizzazione” delle strutture sociali ed economiche: Roma cominciò ad assomigliare ai paesi ellenistici più sviluppati. Nelle regioni centrali e meridionali la piccola proprietà contadina entrò in crisi, mentre si rafforzò la media e grande proprietà basata sul lavoro schiavile. E’ famoso l’episodio raccontato da Plutarco: attraversando l’Etruria, Tiberio Gracco sarebbe stato colpito dalle campagne deserte, attraversate solo da gruppi di schiavi. Quali furono le cause di questa crisi? Le fonti antiche pongono in rilievo alcuni fatti concomitanti.

Anzitutto il servizio militare, che allontanava i contadini dai campi e li teneva a lungo fuori dei confini d’Italia. Se il pater familias restava per molti anni lontano, la sua azienda finiva fatalmente per decadere per mancanza di controllo e per carenza di manodopera. Inoltre, quando tornava, era ormai disabituato al duro lavoro dei campi. Ma c’è di più: i soldati, reclutati principalmente tra contadini che vivevano in un quadro di economia prevalentemente o esclusivamente naturale, entravano in contatto, nei paesi ellenistici più sviluppati, con forme economiche a carattere mercantile. La guerra li forniva di mezzi, che venivano rapidamente consumati sul luogo. In patria, queste abitudini “consumistiche” non poteva più essere soddisfatte. Lo sviluppo delle città, e soprattutto di Roma, offrì invece la possibilità di riprodurre il modo di vita sperimentato sotto le armi. La popolazione agricola veniva risucchiata dai grandi poli dell’urbanesimo. Nella Roma del II e del I secolo a. C. fioriva l’edilizia e si affermavano i vari settori dell’artigianato, che utilizzavano non solo schiavi e liberti, ma anche emigrati dalle campagne. Era anche possibile sopravvivere vendendo il proprio voto, usufruendo di distribuzioni di cereali a basso prezzo o (successivamente) gratuite, facendosi mantenere dai patroni. Scrive infatti Sallustio: “I giovani, che prima avevano tollerato la povertà guadagnandosi di che vivere con il lavoro delle loro braccia, allettati dalle distribuzioni pubbliche e private, preferivano l’ozio in città a un lavoro ingrato” (La congiura di Catilina, 37, 6). Ma Roma attraeva anche con il suo stile di vita: “I contadini hanno abbandonato la falce e l’aratro e preferiscono usare le mani per applaudire al teatro o al circo piuttosto che per mietere o vendemmiare” (Varrone, L’agricoltura, 2, pref. 4). Un’altra causa era la concorrenza della grande proprietà terriera, concentrata nelle mani dei senatori, dei cavaliere e delle aristocrazie locali. Il II secolo è un periodo di fortissimo sviluppo della grande proprietà, fondata sul lavoro schiavile e orientata soprattutto verso le redditizie coltivazioni dell’ulivo e della vite. La classe dominante riusciva a impadronirsi di enormi estensioni di agro pubblico trasformandole di fatto in proprietà privata e riusciva a metterle a coltura grazie all’afflusso di manodopera schiavile. “Poco costoso come un sardo”, si diceva nel 177 a.C., quando, in conseguenza delle operazioni militari condotte in Sardegna – una gigantesca razzia schiavistica – vennero rimessi in vendita contemporaneamente 65.000 prigionieri. Circostanze come queste sono indicative del fenomeno.

Le colture della vite e dell’ulivo, molto più redditizie della cerealicoltura, potevano essere intraprese solo dai ricchi proprietari, gli unici in grado di anticipare le costose spese d’impianto (soprattutto nel caso della vite) e di attendere il lungo tempo necessario a ottenere i primi raccolti. Il piccolo contadino non solo non aveva questa possibilità, ma non ptoeva nemmeno produrre cereali meno costosi di quelli prodotti dalle grandi proprietà o di quelli provenienti dalle province. L’economia mercantile attirava il contadino come consumatore, ma lo escludeva come produttore.

Un altro motivo di crisi fu l’usurpazione, da parte dei grandi proprietari, delle terre comuni, che rappresentavano, come abbiamo visto, una fondamentale integrazione dei poderi contadini (soprattutto a fini di pascolo).

 

 

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