Memorie della Grande Guerra: le tre spallate dell’autunno del 1916

Dopo il successo della Sesta Battaglia dell’Isonzo si tornò alla sfibrante guerra di posizione contro un nemico aggrappato alla roccia sino al costo della vita. L’autunno 1916 diede qualche progresso, a novembre la Terza Armata disfece le postazioni austriache sul Veliki, lanciandosi sino al Dosso Faiti. Furono risultati esigui accompagnati da gravi perdite.

Con la presa di Gorizia, la “prima, grande, autentica vittoria italiana”, come la chiamò Bissolati, si risollevò il morale delle truppe e salì anche la quoatazione del regno in campo alleato. La cosa rinsaldò il governo e diede nuovo slancio alla sua iniziativa. Il risultato fu la dichiarazione di guerra alla Germania, decisione fino all’ultimo avversata da Salandra che si voleva attenere ad una concezione “italiana” del conflitto. Altra misura incoraggiata dal successo della Sesta Battaglia dell’Isonzo fu l’invio di un corpo di spedizione a Salonicco, dove gli anglo-francesi avevano aperto un fronte balcanico. Cadorna riteneva che quel fronte fosse utilissimo all’Italia perchè alleggeriva quello dell’Isonzo.

La Settima Battaglia dell’Isonzo si aprì col bombardamento delle postazioni austriache sul Carso, il 14 settembre 1916. Fu un attacco assestato su una porzione di territorio limitata, quella compresa tra l’Adriatico e Gorizia, preceduto da forti bombardamenti e segnato da perdite contenute rispetto alle iniziative precedenti. L’idea era quella di mantenere alta la pressione sul nemico, pur consapevoli del fatto che non sarebbero arrivati successi significativi. In realtà gli italiani riscontrarono non poche difficoltà. Gli austriaci avevano già rinforzato le difese, ora profonde fino a quattro ordini di trincee e, col supporto di ventimila prigionieri russi, potevano contare su ricoveri e gallerie scavate nella roccia da cui partire al contrattacco. L’avanzata della Terza Armata si arrestò per mantenere le posizioni. Nel giro di due giorni la Settima Battaglia dell’Isonzo era già finita.

Ad ottobre una prima offensiva sul Pasubio, fronte dell’altopiano di Asiago, precedette l’Ottava Battaglia dell’Isonzo. Le penne nere avanzarono sotto il cosiddetto Dente austriaco, cima di 2.206 metri, e occuparono la prima linea delle trincee austriache. Il 10 del mese, nuovi fitti bombardamenti, sul Carso, rinnovarono il tentativo di spallata. Si combattè senza grandi successi anche sul fronte dell’Isonzo, sul Rombon e sul Monte Nero, sulle montagne tra Plezzo e Tolmino. Al 13, la controffensiva nemica ed il tempo nevoso imposero la conclusione dell’iniziativa. Poche centinaia di metri, un bel numero di prigionieri ed il disperato appello di Boroevic a ricevere rinforzi, qeusto si guadagnò. Anche l’azione sul Pasubio dovette cessare per una fitta bufera di neve. “Le ultime tre battaglie hanno dimostrato che il nemico è diventato un altro dallo scorso anno: esso ha molto imparato, si è giovato di tutte le esperienze della moderna tecnica di guerra”, rivelò il feldmaresciallo, tuttavia i giochi non erano ancora fatti.

La Nona Battaglia dell’Isonzo fu la terza spallada d’autunno, negli stessi settori del Carso precedenti e con andamento simile. Alla fine si contarono 9000 prigionieri, ma guadagni territoriali molto limitati, appena Colle Grande e Monte Lupo. L’autunno andò via portandosi complessivamente 77.300 caduti di parte italiana, poco di più quelli austriaci. Sarebbe ora giunto un inverno estremamente rigido, i versanti delle montagne, da Plezzo all’Alto Isonzo, sino al passo dello Stelvio, furono coperte da strati di otto metri di neve. In Macedonia le nostre truppe conquistarono il Monte Velusi e la località di Bratindol, ma l’opinione pubblica nazionale restò attonita, col cuore in gola per due drammi. Un’incursione aerea su Padova, nella notte dell’11 novembre, portò al crollo del bastione della Gatta, dove si erano rifugiati molti civili: dalle macerie furono estratti novantatre cadaveri. Fu il più grave dei diciannove bombardamenti che la città subì durante il conflitto. Giusto un mese dopo, la corazzata italiana Regina Margherita urtò due mine posate nella rada di Valona da un sommergibile tedesco e colò a picco portando con se seicentosettantotto uomini, tra i quali il capitano di vascello Giovanni Bozzo Gravina.

 

 

 

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

Bibliografia: R. Raja, La Grande Guerra giorno per giorno; A. Sema, La grande Guerra; J. R. Schindler, Isonzo. Il massacro dimenticato della Grande Guerra

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