Il Sacco di Roma del 1527
Nel mese di maggio del 1527 Roma venne saccheggiata dalle truppe di Carlo V, comandate da Carlo III di Borbone-Montpensier. L’evento, passato alla storia per la sua brutalità, costrinse il papa alla fuga per aver salva la vita mentre la Guardia Svizzera s’immolava per lui alle porte di Castel Sant’Angelo.
I lanzichenecchi furoreggiavano senza freni nell’Urbe, incendiando, razziando e violentando. Clemente VII aveva levato alto il grido che era stato di Giulio II, “fuori i barbari!”, ma dopo le vittorie spagnole nella battaglia della Bicocca del 1522 e nella battaglia di Pavia del 1525, Carlo V aveva il controllo politico dell’intera Penisola. La sconfitta dei francesi si era, infatti, in una egemonia spagnola sull’Italia. Se sul finire del secolo la Francia manteneva Milano e grinfie su Napoli, se Genova e Firenze le erano amiche, ora Francesco I di Francia era stato catturato, la Spagna possedeva Milano e Napoli ed i Medici di Firenze erano in alleanza con Carlo V e, come loro, anche i Farnese di Parma ed i Doria e gli Spinola di Genova.
Nel frattempo gli ottomani, approfittando del disordine italiano, erano avanzati in Ungheria e, il 29 agosto 1526, nella battaglia di Mohács, l’esercito cristiano soccombeva e re Luigi II esalava l’ultimo respiro. A nulla erano valsi gli sforzi di Carlo e di suo fratello Ferdinando, l’arciduca d’Austria, per convincere il Papa a fermare le ostilità in Italia per aiutare gli ungheresi. L’atteggiamento di Roma spinse Carlo V ad un gesto clamoroso: sostenere militarmente il cardinale Pompeo Colonna che dal gennaio 1526 era in aperto conflitto con Clemente VII. Le truppe occuparono Roma nel settembre di quell’anno e il Papa fu costretto a rifugiarsi a Sant’Angelo. Questa prima occupazione avrebbe dovuto servire da monito per il pontefice che, in effetti, promise di lasciare la Francia e la Lega di Cognac, ma qualche mese dopo, rafforzate le difese di Roma per evitare che nuove offensive si ripetessero, si rimangiò tutto ed attaccò il Regno di Napoli. Stanco di certi giochetti, Carlo V, all’inizio del 1527, armò un esercito di circa 25.000 soldati – spagnoli, italiani e tedeschi – li pose alla guida andasse al fronte di Carlo III di Borbone-Montpensier e del tedesco Jorge de Frundsberg e li fece marciare su Roma.
Le truppe imperiali partirono da Milano, sostarono a Firenze, e ripresero la strada per Roma, con l’intento di sottoporre il papato ad una forte pressione. Tutto qui. Non c’era alcuna volontà di ripetere l’occupazione dell’anno prima. L’Imperatore però sottovalutò le difficoltà di tenere a freno dalla possibilità di saccheggio un esercito a cui erano dovuti numerosi pagamenti. Oltretutto, il nerbo di quell’esercito era anticattolico a causa del gran numero di mercenari luterani, circa dodicimila lanzichenecchi.
Quando le truppe – nervose per a causa del mancato pagamento del soldo – si trovarono di fronte alle antiche mura romane, fu arduo trattenerle. Il 6 maggio, gli spagnoli assalirono la Porta Torrione, mentre i lanzichenecchi attaccarono Porta Santo Spirito. Proprio qui Carlo III di Borbone-Montpensier fu ucciso dall’archibugio di Benvenuto Cellini. Senza più un capo, le truppe imperiali scatenarono la loro furia sulla Città Eterna, distrussero monumenti ed opere d’arte per giorni e giorni, abbandonandosi a stupri, omicidi e rapine. Quando tutto iniziò, Clemente VII stava pregando nella sua cappella e fu portato via appena in tempo: i soldati raggiungesero la Basilica di San Pietro, gli uomini della Guardia Svizzera furono massacrati sui gradini della chiesa, il pontefice, coperto da un mantello viola per evitare di essere riconosciuto, fuggì attraverso il passetto, un corridoio segreto che collega ancora la Città del Vaticano a Castel Sant’Angelo e qui rimase un mese.
Dopo tre giorni, Filiberto de Chalons, Principe d’Orange, nuovo capo dell’esercito imperiale, ordinò di cessare il saccheggio, ma non fu ascoltato. Sapientemente collocò la sua residenza nella Biblioteca Vaticana salvando i suoi preziosi testi. Molto lentamente l’esercito riacquistò disciplina, ma ormai Roma era devastata.
Carlo V ne restò angosciato, per alcuni mesi vestì abiti da lutto. Il pontefice firmò un trattato di pace ma subito dopo tornò ad infrangerlo fuggendo dalla custodia imperiale per andare ad Orvieto. Non sfidò però oltremodo l’imperatore ed il 24 febbraio 1530 accettò di imporgli la corona a Bologna.
Autore articolo: Angelo D’Ambra
Bibliografia: P. Pecchiai, Roma nel Cinquecento