I Cavalieri di Santo Stefano nelle imprese di Laiazzo, Anamur e Finica


Seguiamo i Cavalieri di Santo Stefano nelle imprese di Laiazzo, Anamur e Finica.

L’addestramento dei cavalieri dell’Ordine di Santo Stefano avveniva nel Palazzo della Carovana, a Pisa, oggi sede della Scuola Normale Superiore, ed all’epoca luogo da cui partivano le carovane di cavalieri che andavano ad imbarcarsi a Livorno.

Veniva effettuato nei sei mesi invernali durante i quali la flotta rimaneva nel porto di Livorno e consisteva nello studio dell’architettura militare e nautica, delle scienze navali e nell’uso delle armi. Nei sei mesi seguenti, le galee prendevano il mare e l’addestramento proseguiva a bordo.

I cavalieri erano chiamati alla caccia alle navi pirata, alla guerriglia di mare contro il traffico mercantile musulmano, alla liberazione degli schiavi cristiani ed alla cattura di musulmani, all’assalto agli insediamenti costieri barbareschi e ottomani.

Così nella primavera del 1606 sei galee stefanine, la Capitana, la Padrona, la Firenze, la Santa Maria, la San Cosimo e la San Giovanni, si prepararono a salpare per una scorreria nei mari dell’Anatolia. Nella notte del 3 aprile presero il largo da Livorno sotto il comando dell’ammiraglio Iacopo Inghirami.

Erano cariche di numerosi cavalieri e di 600 soldati divisi nelle tre compagnie di Cosimo Medici, Domenico Bruni da Pistoia e Paolo Emilio Rebubo da Milano, tutte comandate dal capitano Flamminio della Verde, sergente maggiore delle milizie toscane.

Portatisi, il 7 maggio, in vista di Candia si orientarono verso la fortezza di Laiazzo, nel golfo di Alessandretta, oggi Yumurtalık, in Turchia.

L’11, nelle acque di Rodi, scorsero tre caramussali turchi. Il nemico abbandonò quello più piccolo e tentò di resistere al cannoneggiamento stefanino poi si passò all’arrembaggio: quaranta turchi morirono, ottantaquattro furon fatti prigionieri, nove furono i toscani rimasti morti, tra i quali Anton Maria Ghiberti da Cortona, alfiere di Cosimo de Medici, e diciassette i feriti. Furono presi tredici pezzi d’artiglieria e circa mille denari, poi i vascelli furono abbandonati.

Ripresa la navigazione, il 17 maggio le imbarcazioni si fermarono a 25 miglia da Laiazzo. Di notte, una feluca fu inviata ad individuare il luogo dello sbarco, con a bordo un pilota ed i cavalieri Saracinelli di Orvieto e Girolamo Sabatini di Volterra. Ottenute tutte le informazioni, l’ammiraglio dettò lo sbarco alle 4.30 di notte. Si era tuttavia lontani da Laiazzo ancora dieci miglia e la strada si mostrava cattiva e paludosa. La marcia fu lunga e la strada fu smarrita con i toscani che finirono dove erano concentrati 5000 fanti e 600 cavalieri turchi. Accortisi dell’errore riuscirono a ritornare sui loro passi apprestandosi a quella fortezza circondata da un fosso largo almeno dieci braccia e altrettanto profondo con un ponte strettissimo. Si comandò al Capitano Viscardo d’apporre i petardi ad una porta e si riuscì ad aprire un varco. I toscani entrarono trovando trinceramenti ed ottime difese. Il sole sorse e trovò i due schieramenti a fronteggiarsi nella battaglia. L’ammiraglio intanto era rimasto con le sue galee fermo nel luogo dello sbarco e s’avvide di cinque imbarcazioni a vela, le catturò e le trovò cariche di riso e farina per dar foraggio ai ribelli. Furono pure catturati 25 turchi. La piazza nel frattempo era ormai conquistata ma i toscani si avvidero che i turchi tornavano in gran forza con 5000 fanti e 600 cavalieri, così ritornarono velocemente sulle navi appiccando il fuoco ai borghi. L’ammiraglio si ritrovò le galee cariche di 70 schiavi. Tredici soldati toscani erano caduti e trentasei risultavano feriti.

La preparazione dei cavalieri si era mostrata perfetta.

Sul finire del mese, nelle acque turche avevano attaccato due grippi provenienti da Famagosta ed un terzo proveniente da Anamur, facendo prigionieri e catturando i viveri di cui erano carichi. Fu proprio ad Anamur che si diressero.

Costeggiando le coste meridionali dell’Anatolia, le imbarcazioni stefanine volsero verso la città sbarcando 300 soldati ed altri 150 al seguito di Iacopo Inghirami. La capitana fu affidata al cavaliere Scipione Cortesi. Un primo scontro si ebbe con una ronda a cavallo che fu subito messa in fuga ma portò la notizia dello sbarco al Castello di Mamure. Ciononostante si riuscì facilmente ad entrare nel fortilizio perché aveva appena subito un attacco da alcuni bertoni cristiani.

L’Ammiraglio prese tutta l’artiglieria che si trovava nel Castello di Mamure, ovvero otto pezzi di cannoni, e nel mentre però si presentò un cospicuo contingente di cavalieri e fanti turchi coi quali si combatté fino a mezzogiorno. Inghirami ordinò di dar fuoco al grano e all’orzo della cittadella e fuggì coperto dal fumo per poi tornare alla carica con la fanteria e mettere in fuga i cavalieri turchi. Negli scontri fu ammazzato il sanjak-bey della provincia e Niccolà di Ruggiero della compagnia di Paolo Emilio Rebubo prese il suo stendardo d’ermisino rosso.

Lasciata Anamur, catturarono il primo giugno un caramussaletto carico di legno che veniva da Ciarpesan, facendo prigionieri 12 turchi, poi mossero all’assalto della Fortezza di Finica, nella Panfilia.

Sbarcarono alle 4 di notte, in un luogo deserto distante tre miglia, marciarono sino all’alba calando a sorpresa il ponte levatoio con un’avanguardia. Fissarono i petardi e così riuscirono ad entrare. Ebbero ragione dell’opposizione turca facendo 35 schiavi, la maggior parte donne e fanciulli tra i quali moglie e figlia dell’Agha, dei toscani morirono due soldati, ma i maschi turchi preferirono tutti morire anziché finir schiavi. L’artiglieria fu catturata, in tutto dieci pezzi, e, da una torre in cui i turchi, si erano asserragliati fu preso pure lo stendardo bianco e rosso dell’Agha.

Prima di rientrare, nelle acque del Levante fecero ancora prigionieri attaccando tutte le piccole imbarcazioni da carico che riuscirono ad avvistare, evitando opportunamente lo scontro quando si sentirono in difficoltà come il 9 giugno quando avvistarono nove galee guidate da Mami Pascià che stava conducendo Giaffer, nuovo Pascià di Cipro. Le imbarcazioni erano sovraccariche di schiavi, artiglierie e merci. Le galee ottomane cercarono di tagliarle loro la strada e nelle manovre si ruppero gli alberi maestri della Firenze e della San Giovanni. Inghirami dispose le galee a difesa delle due danneggiate e così gli equipaggi riescono a riparare i danni prima che le navi avversarie giungano a portata di balestra, per poi allontanarsi dai nemici.

Le galee toscane si misero poi sulla strada del ritorno, raggiunsero Messina il 25 ed ancora, presso l’Isola di Bentitieni, il 5 luglio, catturarono un brigantino di 17 banchi con 40 turchi, facendone prigionieri 24. Il 7 erano a Civitavecchia, l’11, dopo tre mesi di navigazione, arrivarono a Livorno.

 

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

 

Bibliografia: Relazione di Tre Imprese fatte dalle Galere di Santo Stefano; F. Fontana, I pregj della Toscana nell’imprese piu segnalate de’cavaleri di Santo Stefano; R. Bernardini, I cavalieri di Santo Stefano

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